Le relazioni tra Israele e Chiesa cattolica sono spesso segnate da tensioni, speranze e delusioni. I lavori della Commissione permanente tra Stato d’Israele e Santa Sede (che durano da ben oltre un decennio e che dovrebbero arrivare a definire questioni di natura economica e fiscale previste dall’Accordo fondamentale del 1993) conoscono arresti e faticose ripartenze. Per non parlare della questione dei visti al personale religioso, o delle polemiche sui presunti silenzi di Pio XII su nazismo e Shoah ogni volta che si accenna alla sua beatificazione. Queste sono alcune delle non facili questioni sul tappeto nel rapporto tra le istituzioni della Chiesa e dello Stato ebraico.
A livello di base, anche altre preoccupazioni toccano i cristiani che vivono in Terra Santa e i responsabili delle Chiese. A metà del dicembre scorso alcuni santuari (il convento francescano del Sion, la Dormizione e la cattedrale russa della Trinità) sono stati imbrattati con scritte inequivocabili in ebraico: Mawet lanotsrim, «Morte ai cristiani».
C’è poi l’annosa questione degli sputi che gli ebrei ultraortodossi destinano spesso e volentieri a preti e suore di passaggio nella città vecchia o nella Gerusalemme ebraica. Un malvezzo consolidato al punto da costringere il tribunale della comunità degli haredim a condannare all’inizio di gennaio questa pratica poco gradevole rivolta ai «gentili».
Le scritte anticristiane (opera di un pazzo, frutto di una strategia?) e il malvezzo degli sputi non sono certamente imputabili al popolo d’Israele. Ci mancherebbe altro. Ma descrivono un clima che si va diffondendo e che sappiamo essere preso sul serio dalle autorità israeliane.
La denuncia dell’intolleranza è sacrosanta e l’emarginazione dei comportamenti devianti non deve lasciare spazi a fraintendimenti. Ma deve anche essere accompagnata da gesti concreti, che riaffermino il diritto dei cristiani a vivere rispettati e sereni in Terra Santa.