Nonostante le notizie estremamente inquietanti che oggi arrivano dall'Iran, in Israele c'è un altro fronte che da alcune settimane è ancora più caldo: la guerra delle ong. Oggetto del contendere è un attacco lanciato dal movimento Im Tirtzu («Se lo vogliamo») contro il New Israel Fund, la «cassaforte» delle organizzazioni israeliane schierate per la difesa dei diritti umani.
Nonostante le notizie estremamente inquietanti che oggi arrivano dall’Iran, in Israele c’è un altro fronte che da alcune settimane è ancora più caldo: la guerra delle ong. Oggetto del contendere è un attacco lanciato dal movimento Im Tirtzu («Se lo vogliamo») contro il New Israel Fund, la «cassaforte» delle organizzazioni israeliane schierate per la difesa dei diritti umani.
Im Tirtzu ha diffuso qualche settimana fa un rapporto in cui attribuisce al New Israel Fund la vera paternità del rapporto Goldstone, il documento dell’Onu in cui vengono denunciati gli abusi che sarebbero stati commessi dall’esercito israeliano durante la guerra di Gaza. La fonte delle notizie raccolte da Goldstone – spiega Im Tirtzu – sono associazioni come B’Tselem, Adalah, Physicians for Human Rights, Gisha, Kav LaOved…, tutte sigle di associazioni israeliane che i frequentatori di questo sito conoscono bene. Fin qui siamo all’ovvietà: sono associazioni che operano per la difesa dei diritti dei palestinesi. Il punto però è che Im Tirtzu ha chiesto un’indagine parlamentare contro questi «traditori» con l’intenzione – neanche troppo nascosta – di vietare al New Israel Fund la raccolta fondi per queste associazioni. E un parlamentare di Kadima (neanche del Likud o dell’estrema destra) ha portato questa istanza alla Knesset.
La notizia di queste ultime ore è che Kadima ha sconfessato il suo parlamentare e dunque Im Tirtzu ha perso il primo round. Ma la battaglia – come scrive nel link che riportiamo qui sotto il direttore del New Israel Fund, Daniel Sokatch – si preannuncia lunga. La posta in gioco, infatti, è alta ed è il rapporto tra Israele e l’ebraismo della diaspora. Perché il New Israel Fund si richiama fin dal nome stesso al Jewish National Fund e alle sue scatole azzurre in cui nelle comunità ebraiche di tutto il mondo da sempre si raccolgono fondi per il sostegno alla crescita di Israele. Le «blue box» sono state un ingrediente fondamentale per la realizzazione del sogno sionista, un sostegno grazie al quale i primi pionieri potevano comprare le terre in Eretz Yisrael. Oggi il Jewish National Fund non finanzia più acquisizioni di terre, ma interventi socio-ambientali in Israele. Ma altre organizzazioni legate al mondo dei coloni ancora oggi fanno esattamente questo: raccolgono fondi per favorire la crescita degli insediamenti in Cisgiordania. Il New Israel Fund ha provato a ribaltare questo meccanismo: raccoglie fondi per aiutare realtà che operano a favore di una soluzione equa del conflitto, che tenga conto anche dei diritti dei palestinesi. E non a caso l’accusa che viene rivolta a questa realtà è quella di essere «antisionisti».
Alla fine è proprio lo scontro sul significato che può avere oggi la parola sionismo il centro del contendere. Basta dare un’occhiata al sito di Im Tirtzu per rendersene conto: nonostante il risultato alla fine sia lo stesso, siamo lontani anni luce da Arutz Sheva, il sito internet vicino ai coloni. Im Tirtzu si proclama un movimento «centrista», parla di rinnovamento, ha un’impostazione laica, i suoi leader sono giovani e vengono anche loro dalla «società civile». È un movimento in qualche modo speculare alla galassia del New Israel Fund e – non a caso – proprio contro di essa si scaglia. Con procedure tipicamente anti-sistema: non si vede come la Knesset potrebbe impedire la raccolta fondi per associazioni che operano in Israele senza violare alcuna legge.
È un’iniziativa che non viene dalla solita destra israeliana. Ma proprio per questo è ancora più inquietante, perché strizza l’occhio anche verso ambienti insospettabili. E fa crescere l’idea che chi difende i diritti umani dei palestinesi sia un nemico interno. Uno specchio interessante oggi lo si trova sul sito del quotidiano Haaretz. Dove c’è sì Bradley Burston, che spiega come Israele – se vuole rimanere ciò che è – abbia bisogno di gente come Goldstone (tra l’altro raccontandoci i gravi insulti antisemiti che nel Paese circolano su questo giudice sudafricano di origine ebraica). Ma c’è anche l’articolo di Israel Harel che – dalle colonne del quotidiano liberal – accusa il New Israel Fund di acuire le tensioni tra arabi ed ebrei in Israele.
È una partita molto seria quella in corso a Gerusalemme. Da cui – alla fine – si esce solo rispondendo a una domanda: che cos’è il sionismo per l’ebreo del XXI secolo? Ha ancora qualcosa dell’universalismo dei suoi inizi o è solo affermazione dell’identità ebraica in Eretz Yisrael?
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