Il declino della cristianità sotto l'Islam, della penna dell'archeologa Bat Ye'or, si propone di dimostrare metodicamente, soprattutto tramite la riproduzione di documenti letterari in abbondanza sparsi per quattordici secoli e tre continenti, che cosa l'islam abbia fatto (di male) e che cosa tenterà infallibilmente di compiere nel mondo. Questo studio, con l'ottica tipica del «conflitto di civiltà», si inserisce nel dibattito, tutto occidentale, su come occorra porsi pragmaticamente e culturalmente nei confronti dell'islam contemporaneo.
«Questo non è uno studio sull’islam: non ne esamina infatti né lo sviluppo, né la civiltà. Il suo oggetto è lo studio dei numerosi popoli che esso sottomise». Il declino della cristianità sotto l’Islam, della penna celebre dell’archeologa Bat Ye’or per i tipi della Lindau, si propone di dimostrare metodicamente, soprattutto tramite la riproduzione di documenti letterari in abbondanza sparsi per quattordici secoli e tre continenti, che cosa l’islam abbia fatto (di male) e che cosa tenterà infallibilmente di compiere nel mondo seguendo la sua natura intrinseca; avvertire tutti (non solo la comunità scientifica) del fatto che non esiste una pluralità di modi per interpretare l’impatto dell’islam sulla storia, che si traduce nel tentativo inveterato di assoggettare il mondo.
C’è un termine, dhimma, che teoricamente individua lo statuto di protezione delle minoranze religiose all’interno dei territori sterminati conquistati dal jihad; esso traduce un uso del potere che è stato valutato talvolta positivamente, come testimonianza e prova di un islam evoluto, capace di tollerare il «diverso» durante epoche buie anche e soprattutto per l’attuale Occidente. In realtà, seguendo Bat Ye’or, dhimmi, da cui il neologismo «dhimmitudine», è il vocabolo che conclude la parabola del jihad con la sottomissione dei vinti e richiama una gamma sterminata di fenomeni storici, qui ampiamente documentati, di disuguaglianza, violenza, annullamento dei diritti, della dignità e, in molti casi, dell’identità o dell’esistenza stessa di interi popoli o etnie. E ciò non per un abuso operato da talune fortunate dinastie musulmane nei confronti dell’autentica spiritualità di Maometto, ma proprio perché il Dio consegnato da Maometto e dalla sunna ai posteri ha stabilito ciò che la umma islamica deve sistematicamente compiere in tutte le epoche: sciamare in ogni paese tramite l’immigrazione, attaccare militarmente ogni popolo non musulmano, deportarlo se vuole, prenderne i figli per farne suoi servi o suoi soldati, succhiarne via le ricchezze e le capacità, soprattutto determinare giuridicamente l’inferiorità e la disparità dei suoi interlocutori politici, tanto nel settimo secolo quanto nel ventunesimo, fino a ridurre l’«ospite» non musulmano ad un’esistenza larvale, in molti casi proprio a causa della miopia e della connivenza delle classi dirigenti, religiose o politiche, dei popoli-vittima.
C’è dunque una «dhimmitudine» del passato, che riguarda gli spagnoli invasi nell’alto medioevo come i martiri del nazionalismo balcanico; ne esiste una più recente, che ad esempio sottende il massacro degli armeni o l’estinzione quasi totale dei cristiani del Medio Oriente, e che introduce, per citare ferite attuali, la pretesa odierna di uno Stato palestinese o l’ostilità del mondo arabo verso Israele.
Dopo una prima edizione del 1991 da cui è stata riprodotta anche la preziosa prefazione di Jacques Ellul, questo studio si re-inserisce con forza nel dibattito, tutto occidentale, su come occorra porsi pragmaticamente e culturalmente nei confronti dell’islam contemporaneo, con l’ottica abbastanza tipica del «conflitto di civiltà». Nel mondo di Bat Ye’or, come già per Jacques Ellul, esiste anche un jihad culturale che ottenebra il raziocinio degli occidentali, eccessivamente preoccupati di difendere un improvvido senso del dialogo interculturale (e anche questa sudditanza è «dhimmitudine»), contro l’evidenza di una minaccia islamica sostanzialmente inalterata e irriducibile come al tempo degli ottomani o degli omayyadi.
Troppo brutto, forse troppo semplice, per essere vero.