Le immagini degli scontri scoppiati venerdì 5 marzo sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme hanno fatto come al solito il giro del mondo: giovani palestinesi con il volto coperto dalla kefiah, mentre lanciano sassi sui fedeli ebrei nell’area sottostante del Muro Occidentale; poliziotti israeliani che caricano e disperdono la folla all’uscita dalla moschea, feriti e contusi… Causa scatenante della violenza (sempre esecrabile e mai giustificabile) il piano governativo che intende includere nei siti ebraici da dichiarare patrimonio nazionale, anche due santuari cari alla tradizione musulmana (e soprattutto situati nei Territori palestinesi): la tomba di Rachele a Be-tlemme e la Grotta dei Patriarchi a Hebron. Un progetto che interessa 37 siti archeologici e che prevede un finanziamento di 400 milioni di shekel (poco meno di 80 milioni di euro) finalizzato anche a promuovere nelle scuole l’insegnamento della storia ebraica.
La valorizzazione del patrimonio culturale e religioso è un tema serissimo, ma in Terra Santa assume il contorno di un ulteriore conflitto (non bastassero quelli in corso) tra le varie componenti sociali e religiose. Il desiderio di affermare la propria storia e la propria identità non può prevedere che si neghi o si rimuova l’identità dell’altro. «L’identità germoglia sulle tombe della comunità», spiega il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Il prezzo da pagare, la storia ce lo insegna, è sempre troppo alto.
Fuori da un contesto di comprensione e di dialogo, il tema della salvaguardia delle radici finisce per assumere contorni drammaticamente paradossali. Ce lo testimonia anche la vicenda del progetto del Museo della Tolleranza, promosso dal Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles, sull’area del cimitero musulmano di Mamilla, poco distante dalle mura della Gerusalemme vecchia. L’idea è quella di un centro che promuova i valori della dignità umana e della tolleranza. Peccato che per farlo si stia profanando un’area utilizzata da secoli (e fino al 1948) come luogo di sepoltura dalla comunità palestinese.
Se si vuole che la pace, la comprensione e la pacifica convivenza restino semplicemente degli slogan buoni per qualche convention internazionale o per gettare fumo negli occhi, questa sembra essere – tragicamente – la strada giusta.