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Abitare la solitudine

Giuseppe Caffulli
3 maggio 2010
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Abitare la solitudine

Nel volume La solitudine del credente, fratel Alberto Mello, monaco di Bose, guarda alla solitudine del credente – nella quale prima o poi tutti incocciano – attraverso la lettura spirituale di alcune figure bibliche - da Adamo ad Abramo, da Giuseppe a Mosé, da Elia a Geremia - tutte alle prese con la fatica di credere. Il secondo capitolo è dedicato non a un personaggio, ma a Gerusalemme, città solitaria nella sua unicità.


«Quello che presento è un percorso biblico che ha come filo conduttore la solitudine del credente». Con queste parole – a dir poco sorprendenti – Alberto Mello, monaco della Comunità di Bose a Gerusalemme, inizia la Premessa al volumetto che si intitola appunto La solitudine del credente. «Certo non è un discorso sempre facile e attraente (…). – prosegue l’autore -. Dobbiamo imparare ad abitare la solitudine, ad addomesticarla, a rendercela familiare e mi è sembrato proprio che questo potesse essere un insegnamento dei grandi credenti della Bibbia».

Da oltre vent’anni a Gerusalemme, fratel Alberto Mello insegna esegesi e teologia presso lo Studium Biblicum Franciscanum della città santa. Si è occupato dei Salmi alla luce della tradizione e dell’esegesi ebraica.

In questo volume offre una lettura della condizione di solitudine del credente – una condizione antropologica nella quale prima o poi tutti incocciano – attraverso una lettura spirituale di alcune grandi figure bibliche; da Adamo ad Abramo; da Giuseppe a Mosé; da Elia a Geremia, riconoscendo in essi un tratto comune: la lotta contro la fatica di credere. «Fede infatti – spiega Mello – è un’apertura di credito senza garanzia di restituzione: questo pone l’uomo in una solitudine estrema».

Culmine e redenzione di questa solitudine è Gesù Cristo. Una condizione che sa – anche nell’ora della prova – diventare feconda: «Se il chicco di grano, una volta che è caduto per terra, non muore, rimane solo; s invece muore, porta molto frutto (Gv 12,24)

«La vera alternativa è tra la solitudine e la fecondità. Vuol dire che si può dare una solitudine infeconda, infruttuosa. Una solitudine che non si apre al dono di sé, all’offerta, alla comunione. Una solitudine che trattiene ancora qualcosa per sé (…). Anche il seme che dà frutto è solo, quando muore. Vi è dunque una soglia da varcare, all’interno della nostra solitudine. Al di qua di questa soglia, la solitudine del credente può ancora costituire una resistenza, un inciampo, un’estrema tentazione. Al di là di questa soglia, la nostra solitudine si trasforma in comunione. Solo quando non avremo più trattenuto più nulla per noi stessi, neppure la nostra solitudine, saremo capaci di renderla feconda come il chicco di grano» (p. 110).

Particolarmente interessante il capitolo secondo, dedicato non a un personaggio, ma a Gerusalemme: città solitaria proprio in virtù della sua elezione e al compito rivelativo destinatole da Dio nella storia.

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