Una notizia che continuamente rimbalza sulle pagine dei giornali è che a Gerusalemme presto, nonostante le pressioni internazionali, centinaia di persone dovranno sloggiare dal quartiere arabo di Silwan per far posto a un parco archeologico-turistico, detto dei Giardini Reali. Si tratta in effetti dell’estensione e coronamento di un altro progetto di più vasta entità e più antica data che coinvolge tutta l’area archeologica della Città di David. Agli abitanti rimasti, soprattutto in quest’ultima zona, tocca fare i conti con gli archeologi, che ormai da più cento anni si sono dati da fare praticando profonde trincee e gallerie davanti, dietro e sotto alle case dei locali abitanti nella ricerca continua e incessante delle reliquie dell’antica Gerusalemme. Più ancora adesso che associazioni integraliste di coloni ebrei (tipo Elad) si dedicano con tenacia all’appropriazione graduale dei terreni e finanziano anche in gran parte gli scavi in corso. La terminologia biblica utilizzata (Città di David, Giardini Reali) può essere vista come indicazione che particolari interessi politico-religiosi siano alla base di tali iniziative.
Ma la realtà storica portata alla luce del sole dagli archeologi è generalmente ben più vasta e articolata da quella che serve le mire dei coloni. Insieme con l’ebraica Città di David gli archeologi scoprono e descrivono infatti anche le fortificazioni gebusee, le costruzioni romane, bizantine e arabe… almeno quattromila anni di storia.
Quanto agli archeologi impegnati nella direzione di questi lavori, sono generalmente noti professori universitari o esperti funzionari del Dipartimento delle Antichità dello Stato d’Israele, gente preparata ad affrontare tutti i rebus e i puzzle storici di questa terra. Professori e tecnici non si identificano necessariamente con le idee delle associazioni politiche sopramenzionate, anche se ne condividono l’etnicità. È chiaro tuttavia che archeologia, politica e Bibbia, pubblicità e finanziamenti, si incontrano/scontrano a Gerusalemme sullo sfondo di una situazione già di per sé abbastanza ricca di tensione. Sembra verificarsi in questo modo una forma di collusione tra l’aspetto scientifico e quello politico, certo indesiderata e non inevitabile, come dimostra l’accusa frequente di privilegiare «certi» ritrovamenti e trascurarne «altri».
Una situazione di conflitto di natura semantica è stata anche alla base della recente polemica nel campo delle scienze bibliche, e particolarmente nell’ambito dell’archeologia. La qualificazione di «biblica», assegnata a una scienza, a non pochi è apparsa erronea e fuorviante tanto che una famosa rivista americana si è risolta a cambiare da un giorno all’altro il proprio titolo da Biblical Archaeology a Near East Archaeology (Archeologia del Vicino Oriente in luogo di Archeologia Biblica).
La formazione universitaria tende a garantire, ma purtroppo non assicura, che un archeologo sia libero da pregiudizi e precomprensioni nel valutare allo stesso modo tutti i ritrovamenti e dare loro uguale importanza. Si racconta, in questo senso, un aneddoto abbastanza significativo di padre Sylvester Saller (1895-1976), che fu il primo o quanto meno uno dei principali archeologi del nostro Studium Biblicum Franciscanum. A coloro che gli domandavano che cosa stesse scavando, si dice che fosse solito rispondere con la sua burbera voce: «Quello che c’è!». Intendeva cioè ricercare nient’altro che la verità. Un’obiettiva lezione di umanesimo imparziale.