Una delle domande classiche del conflitto in Terra Santa è quella sul Gandhi palestinese: come mai a Ramallah non spunta mai fuori un leader che guidi con mezzi non violenti la lotta contro l’occupazione? Adesso che la questione della non violenza sembra sul serio all’ordine del giorno in Palestina, spunta una nuova domanda: ma il Gandhi di Israele dov’è?
Una delle domande classiche del conflitto in Terra Santa è quella sul Gandhi palestinese: come mai a Ramallah, sede principale dell’Autorità Nazionale Paletinese, non spunta mai fuori un leader che guidi con mezzi non violenti la lotta contro l’occupazione? Chi pone in questi termini la domanda ha già ovviamente anche la risposta: perché loro, in realtà, non vogliono la pace. Il problema, però, è che adesso la questione della non violenza sembra sul serio all’ordine del giorno in Palestina. E spunta una nuova domanda: ma il Gandhi di Israele dov’è?
A innescare tutte queste riflessioni sono stati due articoli usciti negli ultimi giorni su due grandi quotidiani americani. Prima è stato il Wall Street Journal ha osservare che qualcosa sta cambiando: persino Hamas ed Hezbollah sembrano cominciare a capire che la disobbedienza civile può dimostrarsi molto più redditizia della guerriglia. «Abbiamo ottenuto di più con la Freedom Flottilla che con diecimila razzi Qassam», avrebbe commentato un leader di Hamas. E gli sviluppi delle ultime ore con la vicenda della nave libica – dirottata sì in Egitto, ma dopo aver ottenuto di far entrare a Gaza materiale edile – sta lì a dimostrarlo. Molto più avanti stanno, però, le cose in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove le proteste non violente contro il muro e contro le demolizioni di case a Gerusalemme est vanno avanti da mesi (tutti i venerdì si svolge quella nel centralissimo e blindato quartiere di Sheikh Jarrah). A partire da questa osservazione sul campo la settimana scorsa Nicholas Kristof ha scritto sul New York Times un editoriale con il solito titolo: Waiting for Gandhi. Però la novità è che questa volta non è un articolo venato di scetticismo, ma una riflessione su uno scenario possibile.
Ho trovato molto interessanti due reazioni uscite in questi giorni in Medio Oriente all’articolo di Nicholas Kristof. La prima l’ha pubblicata il sito palestinese Miftah e porta la firma di un’altra americana, Leah Hunt-Hendrix. È un articolo che pone due obiezioni alla lettura del New York Times. Primo: chi l’ha detto che in Palestina la non violenza è una novità? Cita una serie di esempi interessanti Lea Hunt-Hendrix, a partire da quella documentata nel film Budrus – molto apprezzato all’ultimo Tribeca Film Festival – che racconta la lotta non violenta di un villaggio contro l’abbattimento dei propri ulivi per fare spazio al muro di separazione. Ma cita anche il concetto di sumud, in arabo «fermezza», che fu un’idea chiave soprattutto nella prima intifada. Secondo: ma la non violenza dipende solo dai palestinesi? Uno degli ingredienti chiave per la lotta gandhiana è l’attenzione e il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. E se i media di oggi si nutrono solo di sangue e violenza in questo conflitto? È una riflessione amara ma importante: quanti articoli avete letto sulla protesta non violenta di Sheikh Jarrah? Di qui la conclusione di Leah Hunt-Hendrix: la domanda giusta non è chiedersi quando arriverà il Gandhi palestinese, ma che cosa stiamo facendo davvero per contribuire alla pace in questa regione.
L’altro commento molto bello è quello di Bradley Burston, sul suo blog in Haaretz, uno degli angoli da tenere costantemente d’occhio se si cercano idee non scontate su questo conflitto. Ci si interroga sul Gandhi palestinese – dice in sostanza Burston -, ma il Gandhi israeliano dov’è? Burston ha parole molto forti sul panico che sta attraversando la destra israeliana per via del boicottaggio economico promosso da Fayyad (ieri alla Knesset ha fatto il primo passo una legge che se approvata congelerebbe per ritorsione i trasferimenti all’Anp delle tasse raccolte in forza degli accordi di Oslo, alla faccia dei discorsi sui negoziati di pace…). Ma mette il dito anche sulla questione del machismo nella politica israeliana. E ricorda che in Israele a essere soprannominato Gandhi era il ministro Ze’evi, ma solo per via di una vaga somiglianza fisica. Sarà anche stato ucciso da un commando terrorista palestinese, ma la sua principale idea politica era il «trasferimento» dei palestinesi in Giordania. E dichiarava apertamente: «io ho paura della pace». Forse, oltre che a Ramallah, qualche domanda su Gandhi sarebbe il caso di farsela anche a Gerusalemme.
Clicca qui per leggere l’articolo del Wall Street Journal
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Clicca qui per leggere l’articolo di Leah Hunt-Hendrix sul sito di Miftah
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