Gerusalemme, 1948. È appena stato proclamato lo Stato d’Israele ed è scoppiata la prima guerra arabo-israeliana, quando Hind, una giovane donna palestinese trova sulla sua strada un gruppo di piccoli orfani palestinesi scampati ad un attacco israeliano. E decide di prendersene cura.
Nasce così l’istituto Dar Al Tifel («Casa del fanciullo»). A questa struttura meritoria e coraggiosa (la cui storia da sola meriterebbe un film) viene affidata dal padre – un imam della moschea al-Aqsa a Gerusalemme – la piccola Miral di 7 anni, dopo il suicidio della madre. Cresciuta nel gorgo del conflitto israelo-palestinese, a 17 anni la ragazza si trova invischiata con altri giovani in una organizzazione che lotta per la liberazione del popolo palestinese. Arrestata e torturata dalla polizia israeliana, Miral non tradisce. Verrà poi fatta uscire dal Paese con una borsa di studio dalla sua antica maestra Hind.
Tratto dal romanzo autobiografico La strada dei fiori di Miral, scritto dalla giornalista Rula Jebreal, volto noto al pubblico televisivo italiano, e sceneggiato dalla stessa autrice, il film (in concorso al Festival di Venezia 2010), pur avendo il merito di porre all’attenzione del pubblico una volta di più il tema della questione palestinese, rappresenta sostanzialmente un’occasione perduta.
Debole la sceneggiatura, approssimativa la regia del celebrato cineasta e pittore ebreo statunitense Julian Schnabel, stucchevoli i dialoghi, appena abbozzata la psicologia dei personaggi, il film non decolla mai. Avrebbe potuto essere un grande affresco della società palestinese sullo sfondo del conflitto arabo-israeliano e della prima intifada; avrebbe potuto raccontare una umanità dolente depredata dalle proprie radici e consegnata a una palese ingiustizia; avrebbe potuto essere un film politico o viceversa sondare i turbamenti e le ansie dell’adolescenza nel suo non sempre facile percorso verso la maturità…
Di fatto Miral non sceglie nessuna strada, barcamenandosi tra fiction e cinema-realtà (con spezzoni tratti dalle cineteche). E alla fine non emoziona.