L’Instrumentum laboris dell'imminente assemblea speciale del Sinodo dei vescovi dedicata al Medio Oriente è pubblicato in quattro lingue: arabo, francese, inglese e italiano. Redatto dagli esperti della Santa Sede a partire dalle riflessioni delle varie comunità ecclesiali mediorientali, offre una sintesi delle principali questioni sul tappeto. L'abbiamo sfogliato per voi.
L’Instrumentum laboris della prossima assemblea speciale del Sinodo dei vescovi dedicata al Medio Oriente è pubblicato in quattro lingue – arabo, francese, inglese e italiano – e reca la data del 6 giugno 2010, giorno in cui Benedetto XVI lo ha ufficialmente consegnato ai patriarchi e vescovi mediorientali convocati a Nicosia, la capitale di Cipro.
A redigere il documento gli esperti della Santa Sede che hanno elaborato, sotto la responsabilità dell’arcivescovo Nikola Eterović, segretario generale del Sinodo dei vescovi, le risposte ai questionari proposti nei Lineamenta e le riflessioni inviate in Vaticano dalle varie comunità ecclesiali mediorientali.
Con i temi che affronta, il testo rappresenta una sorta di bussola per gli approfondimenti e i dibattiti che avverranno durante i lavori sinodali, dal 10 al 24 ottobre prossimo.
Tolte l’Introduzione e le Conclusioni, l’Instrumentum laboris s’articola in tre parti: «La Chiesa cattolica in Medio Oriente», «La comunione ecclesiale», «La testimonianza cristiana». Gli argomenti toccati in queste pagine prendono le mosse dall’attualità delle Chiese mediorientali ed elencano prospettive, caratteristiche e problemi ben noti a chi vive nella regione o ne è un frequentatore e conoscitore.
Perché il Sinodo
Gli obiettivi del Sinodo sono duplici. Così li riassume l’Introduzione: «confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità mediante la Parola di Dio e i Sacramenti; ravvivare la comunione ecclesiale tra le Chiese sui iuris, affinché possano offrire una testimonianza di vita cristiana autentica, gioiosa e attraente».
Il Medio Oriente è culla e scrigno delle Chiese cristiane orientali e ogni comunità cattolica di rito diverso da quello latino conserva stretti legami con i cristiani che utilizzano lo stesso rito, ma non sono in comunione con Roma. Una prossimità che è ben presente nelle risposte ai questionari dei Lineamenta: «segno – rileva l’Instrumentum laboris – dell’importanza sempre più crescente della sensibilità ecumenica delle Chiese cattoliche particolari e dei singoli fedeli».
La riflessione sinodale, specifica l’Introduzione, «sarà guidata dalle Sacre Scritture, che sono state redatte da uomini ispirati dallo Spirito Santo nelle nostre terre e nelle nostre lingue (ebraico, aramaico e greco) in ambiti ed espressioni culturali e letterali che sentiamo nostri». È vero purtroppo che ai nostri giorni tra i cattolici mediorientali «v’è una grande sete della Parola di Dio eppure la sua lettura non è così diffusa come dovrebbe essere. Si rileva che manca un’iniziazione ad una comprensione più esatta del suo significato. Vanno incoraggiate, pertanto, tutte le iniziative che concorrono a diffondere la lettura e la diffusione del Vangelo» (n. 8).
In questo inizio millennio in cui gli equilibri della politica e dell’economia mondiali sono in via di ridefinizione, il Medio Oriente e il bacino del Golfo Arabico restano uno scacchiere caldo, un crocevia della Storia – esso pure teatro di mutamenti decisivi – a cui non si può negare attenzione, anche dal punto di vista ecclesiale. «La storia del cristianesimo in Medio Oriente – ricorda l’Instrumentum laboris – è importante, non solo per i cristiani che vi vivono, ma anche per i cristiani del mondo intero. (…) Tutte le Chiese particolari, che si tratti del Medio Oriente o del resto del mondo, risalgono alla Chiesa di Gerusalemme, adunata dallo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste. Si tratta di un avvenimento importante della Divina Provvidenza che ha voluto rivelare il suo progetto di salvezza in questa parte dell’Asia». Ragione sufficiente per auspicare che i lavori sinodali vengano seguiti con interesse dai fedeli e dai media cattolici di tutto il mondo.
Sfide e prospettive
Guardando alla situazione odierna della Chiesa cattolica in Medio Oriente, il testo preparatorio dell’assise di ottobre delinea zone d’ombra e sfide: sul versante dell’impegno missionario delle Chiese di quella regione «dobbiamo constatare che questo slancio evangelico è spesso frenato e la fiamma dello Spirito sembra essersi affievolita» (n. 20); vescovi, parroci e sacerdoti in cura pastorale, ma anche i movimenti ecclesiali, sono chiamati a curare meglio, rendendola più esplicita, la pastorale vocazionale nei confronti dei giovani, che sono alla ricerca di una spiritualità forte. A tal fine bisogna riconoscere l’importanza della testimonianza personale e della gioia di vivere dei consacrati (cfr. nn. 21-22).
«I conflitti politici in atto nella regione – si osserva nell’Instrumentum laboris – hanno un’influenza diretta sulla vita dei cristiani, come cittadini e come cristiani, rendendo la loro situazione particolarmente fragile e instabile. L’occupazione israeliana dei territori palestinesi rende difficile la vita quotidiana per la libertà di movimento, l’economia e la vita sociale e religiosa (accesso ai Luoghi Santi, condizionato da permessi militari accordati agli uni e rifiutati agli altri, per ragioni di sicurezza). Inoltre, alcuni gruppi fondamentalisti cristiani giustificano, basandosi sulle Sacre Scritture, l’ingiustizia politica imposta ai palestinesi, il che rende ancor più delicata la posizione dei cristiani arabi» (n. 32). Altrove la situazione non è meno dolorosa: «in Iraq, la guerra ha scatenato le forze del male nel Paese, all’interno delle correnti politiche e delle confessioni religiose. Essa ha mietuto vittime tra tutti gli iracheni, ma i cristiani sono stati tra i colpiti principali in quanto rappresentano la comunità irachena più esigua e debole. Ancor’oggi la politica mondiale non ne tiene sufficiente conto» (n. 33). «In Libano, i cristiani sono divisi sul piano politico e confessionale e nessuno ha un progetto che possa essere accetto a tutti. In Egitto, la crescita dell’Islam politico, da una parte, e il disimpegno, in parte forzato, dei cristiani nei confronti della società civile, dall’altra, rendono la loro vita esposta a serie difficoltà. Inoltre, questa islamizzazione penetra nelle famiglie anche mediante i mass media e la scuola, modificando le mentalità che, inconsapevolmente, si islamizzano. In altri Paesi, l’autoritarismo, cioè la dittatura, spinge la popolazione, compresi i cristiani, a sopportare tutto in silenzio per salvare l’essenziale. In Turchia, il concetto attuale di laicità pone ancora problemi alla piena libertà religiosa del Paese» (n. 34).
Libertà religiosa e di coscienza
Un capitolo delicatissimo è quello della libertà di religione e di coscienza soprattutto nelle società e regimi di impronta islamica. «In Oriente – spiega bene il testo sinodale –, libertà di religione vuol dire solitamente libertà di culto. Non si tratta dunque di libertà di coscienza, cioè della libertà di credere o non credere, di praticare una religione da soli o in pubblico senza alcun impedimento, e dunque della libertà di cambiare religione. In Oriente, la religione è, in generale, una scelta sociale e perfino nazionale, non individuale. Cambiare religione è ritenuto un tradimento verso la società, la cultura e la Nazione costruita principalmente su una tradizione religiosa» (n. 37).
Poste queste premesse, «la conversione alla fede cristiana è vista come il frutto di un proselitismo interessato, non di una convinzione religiosa autentica. Per il musulmano, essa è spesso vietata dalle leggi dello Stato. Anche il cristiano conosce una pressione e un’opposizione, benché molto più lievi, da parte della propria famiglia o tribù; ma resta libero di cambiare religione. In alcuni casi, la conversione all’Islam non avviene per convinzione religiosa, ma per interessi personali, in particolare per liberarsi dei propri obblighi di fronte a difficoltà di ordine familiare. A volte, essa può verificarsi anche sotto la pressione del proselitismo musulmano» (n. 38).
A complicare il quadro vi è la crescita dell’islam politico, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Le sue correnti estremiste, che propugnano un ritorno all’islam delle origini, «sono una minaccia per tutti, cristiani, ebrei e musulmani, e noi – leggiamo nell’Intrumentm laboris – dobbiamo affrontarle insieme» (n. 42).
I cristiani nelle loro società
Altro tema caldo è quello dell’emigrazione dei cristiani dalle loro terre natali. Il fenomeno non riguarda solo loro, osserva il testo pre-sinodale, e ha avuto inizio verso la fine del XIX secolo. «Le due cause principali erano d’ordine politico ed economico. (…) Questa emigrazione si è accentuata oggi con il conflitto israelo-palestinese e l’instabilità che ha causato in tutta la regione, mentre la situazione sociale minacciosa dell’Iraq e l’instabilità politica del Libano hanno contribuito ad ampliare il fenomeno» (n. 43).
L’Instrumentum laboris prosegue: «Solo la pace e la democrazia, accompagnate da sufficiente sviluppo economico, e quindi sociale e culturale, delle Nazioni cui appartengono i cristiani possono plasmare ambienti e condizioni in cui i cristiani, famiglie e singoli, non si sentano più tanto spinti all’emigrazione come lo sono oggi» (n. 45). Ma non basta: «C’è un altro aspetto che potrebbe aiutare a limitare l’emigrazione: rendere i cristiani, a cominciare dai pastori, maggiormente consapevoli del senso della loro presenza e della necessità di impegnarsi, qui e ora, nella vita pubblica. Ciascuno, nel proprio Paese, è portatore del messaggio di Cristo alla sua società e ciò deve avvenire nelle difficoltà e nella persecuzione» (n. 46). D’altronde «benché i cristiani in Medio Oriente siano quasi ovunque una scarsa minoranza, essi tuttavia, là dove è socialmente e politicamente possibile, irradiano attivo dinamismo. Il pericolo sta nel ripiegamento su di sé e nella paura dell’altro. Occorre allo stesso tempo rafforzare la fede e la spiritualità dei nostri fedeli e rinsaldare il legame sociale e la solidarietà tra di loro, senza cadere in un atteggiamento ghettizzante» (n. 28).
E qui lo sguardo si concentra sulla testimonianza dei cristiani, sul loro contributo alla costruzione della società e sui rapporti con i credenti di altre fedi.
«La Chiesa – ricorda l’Instrumentum laboris – lavora in primo luogo alla promozione della famiglia e alla difesa dei valori che la proteggono dai vari pericoli che ne minacciano oggi la santità e stabilità. (…) Per contribuire all’edificazione della società in generale, la Chiesa presenta la Dottrina sociale della Chiesa a coloro che sono impegnati nelle questioni sociali per offrire un’alternativa e una soluzione alla spirale di violenza che nasce dalle situazioni di ingiustizia aggravate da conflitti etnico-religiosi. L’educazione resta l’investimento maggiore. Le nostre Chiese e le nostre scuole potrebbero aiutare di più i meno fortunati» (n. 29). «Ma è soprattutto grazie alle attività caritative indirizzate non soltanto ai cristiani, ma anche ai musulmani e agli ebrei, che l’azione delle nostre Chiese in favore del bene comune è particolarmente tangibile» (n. 30).
Formazione, ecumenismo, dialogo
In ordine alla testimonianza oltre alle opere è importante la catechesi, che «tende a far conoscere e vivere la fede» (n. 62) e deve aiutare soprattutto i giovani impegnarsi nella società «forti della loro fede e della luce del comandamento dell’amore» (n. 68). Altro elemento centrale in ordine alla testimonianza è la liturgia, «un aspetto così fortemente radicato nella cultura orientale, (che) non può sottovalutarsi oggi la sua capacità di mantenere viva la fede dei credenti e anche di attirare l’interesse di coloro che si sono allontanati o addirittura di quelli che non credono» (n. 70).
Tra le ultime questioni toccate dall’Instrumentum laboris vi sono le relazioni ecumeniche e quelle interreligiose con ebrei e musulmani.
«Strumento essenziale dell’ecumenismo è il dialogo, che deve svolgersi con attitudine positiva, per incrementare la comprensione reciproca, superando le diffidenze e lavorando per la difesa dei valori religiosi, collaborando ai progetti di utilità sociale, favorendo la comprensione tra i fedeli dei diversi Paesi e migliorando le loro condizioni di vita. Date le incomprensioni storiche, è necessario procedere ad una purificazione della memoria, liberando gli animi dai diversi pregiudizi, attraverso l’accettazione gli uni degli altri, lavorando insieme per le cose comuni» (n. 80). «Due segni sono di particolare importanza: l’unificazione delle feste cristiane (Natale e Pasqua) (in molti Paesi del Medio Oriente – ma non a Gerusalemme – i cristiani hanno scelto di celebrare le due feste nella stessa data, a prescindere dallo scarto cronologico tra il calendario giuliano e quello gregoriano utilizzati rispettivamente dalle Chiese d’Oriente e da quelle d’Occidente – ndr) e la gestione comune dei Luoghi di Terra Santa. Il modo di gestire, nell’amore e nel rispetto mutuo, i Luoghi Santi della Cristianità, nella Terra Santa, dalle due Chiese Ortodosse responsabili di questi luoghi con la Custodia di Terra Santa, è una testimonianza per le Chiese della regione come per le Chiese del mondo» (n. 82).
Per quanto riguarda le relazioni dei cattolici con gli ebrei, l’Instrumentum laboris ribadisce che «la relazione della Chiesa Cattolica con l’ebraismo trova nel Concilio Vaticano II un punto di riferimento fondamentale, che non può mancare nel dibattito sinodale sull’argomento. Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane costituiscono il tema specifico della Dichiarazione Nostra aetate (…) Ma lo spirito della suddetta dichiarazione conciliare s’inserisce in un discorso più largo in quanto presuppone due altre costituzioni dogmatiche del medesimo Concilio: una sulla Chiesa, la Lumen gentium, e l’altra sulla rivelazione, la Dei Verbum» (n. 85s.).
È bene ricordare qui che quasi tutti i cattolici mediorientali sono arabi e dunque il conflitto israelo-palestinese non può che pesare nei rapporti con gli ebrei. Così, «mentre emerge chiaramente un atteggiamento generale di rifiuto dell’antisemitismo, espresso più volte e in vari modi, è anche evidente che in tutti gli ambienti ecclesiali del Medio Oriente l’antigiudaismo è stato superato dalle linee pastorali del Concilio Vaticano II, almeno a livello teorico. Gli attuali atteggiamenti negativi tra popoli arabi e popolo ebreo sembrano piuttosto di carattere politico, dovuti alla situazione di conflitto e dunque di ostilità politiche. Nel contempo, sembra abbastanza diffuso il parere che l’antisionismo sia piuttosto una posizione politica e di conseguenza da considerare estranea ad ogni discorso ecclesiale. A tutta questa situazione, il cristiano è chiamato a portare uno spirito di riconciliazione basata sulla giustizia e l’equità per le due parti. D’altra parte, le Chiese nel Medio Oriente invitano a mantenere la distinzione tra la realtà religiosa e quella politica» (n. 90).
Se sul versante teologico anche le relazioni della Chiesa cattolica con i musulmani hanno fondamento nella Nostra aetate; sul piano sociologico vi sono ulteriori motivazioni: arabi cristiani e musulmani sono «cittadini di uno stesso Paese e di una stessa patria che condividono lingua e cultura, e anche gioie e dolori» (n. 96). Vi è però un legame in più, richiamato anche da Benedetto XVI nel corso del suo pellegrinaggio del 2009 in Terra Santa: «L’islam è nato in un ambiente dove erano presenti sia l’ebraismo sia i diversi rami del cristianesimo: giudeo-cristianesimo, cristianesimo-antiocheno, cristianesimo-bizantino e tutte queste circostanze si riflettono nella tradizione coranica così che abbiamo tanto in comune fin dalle origini e anche nella fede nell’unico Dio, perciò è importante da una parte avere i dialoghi bilaterali – con gli ebrei e con l’Islam – e poi anche il dialogo trilaterale» (cfr. n. 96).
Una parola di verità, una parola di pace
Nel contesto spesso violento del Medio Oriente osserva l’Instrumentum laboris, «il contributo del cristiano consiste nel presentare e nel vivere i valori evangelici, ma anche nel dire la parola di verità (qawl alhaqq) ai forti che opprimono o seguono politiche, che vanno contro gli interessi del Paese, e anche a quanti rispondono all’oppressione con la violenza. La pedagogia della pace è realistica, anche se rischia di essere respinta dai più; essa ha anche più possibilità di essere accolta, visto che la violenza tanto dei forti quanto dei deboli ha condotto, nella regione del Medio Oriente, unicamente a fallimenti e a uno stallo generale. Il nostro contributo, che esige molto coraggio, è indispensabile» (n. 102).