Qualche mese fa ho ricevuto un gruppo di francesi di diverso orientamento religioso (insieme ad alcuni atei), e temevo che queste persone di buona volontà vedessero la ricerca della pace solo dal punto di vista della ricerca di un minimo comune denominatore. Li ho anticipati affermando che il mio percorso nell’incontro con gli altri credenti non riposa affatto su un consenso che minimizza le differenze, ma sul riconoscere e rispettare l’alterità. Mi è venuta in mente la seconda parte del Salmo 85, che non ho mai compreso e apprezzato così tanto: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno».
Troppe persone, in nome dell’apertura all’altro, sono pronte a sacrificare le verità di fede, come se affermarle significasse mancanza di libertà, censura e addirittura inquisizione. Invece di credere nella Rivelazione, ci si crea una religione personale a partire da ciò che si avverte come vero, al fine di rendere possibile una vita comune senza problemi. Mischiare un po’ d’islam e di cristianesimo (o di buddhismo), alla fine che male fa?
Ma questo non significa «perdersi»? Non si tratta di possedere la propria verità, ma di essere posseduti dalla verità e dalla giustizia, e dalle loro sorelle, l’amore e la pace. Amore e verità non sono antagoniste, ma si vengono incontro; giustizia e pace non sono distanti, ma si baciano. È vero per ogni religione. E così si spiega questa frase di Yunus Emre, mistico musulmano del XIII secolo, in Anatolia: «A chi è senza amore, a cosa servono la religione e la fede?».
Per noi cristiani non può esserci verità senza amore, al punto che la nostra non è una «religione del libro» ma la «religione di un uomo». Gesù, che ci ha rivelato che Dio è Amore e che è morto per amore nostro nonostante la nostra mancanza di reciprocità. L’amore senza verità fa di sé un idolo; la verità senza amore porta al fanatismo; la giustizia senza amore né pace conduce all’inquisizione; una pace senza giustizia si trasforma presto in dittatura.
Un membro ateo del gruppo di cui vi ho parlato all’inizio, dimostrava di apprezzare il lavoro che i francescani svolgono. Sentendomi parlare del legame che abbiamo creato qui con i musulmani, e non avendo un’idea positiva della Chiesa, ha così chiesto se mi trovassi a mio agio all’interno della Chiesa. Non sono certo di averlo convinto rispondendo che non siamo combattuti tra l’obbedienza alla Chiesa e la volontà di incontrare i nostri fratelli e sorelle senza barriere: facciamo solo ciò che il concilio e i papi ci chiedono.
L’amore per la Chiesa e per le quattro parole d’oro (amore, verità, pace e giustizia), ci abita. Dalla Chiesa in particolare siamo inviati per il ministero della riconciliazione. Dal momento che la Chiesa è in me e che io sono nella Chiesa, posso anche andare a pregare in una moschea, in silenzio, lontano da ogni sincretismo, ricongiungendomi spiritualmente con coloro che si recano in questo luogo a ritrovare Dio.
Potremmo anche invertire i verbi: giustizia e pace si incontreranno, amore e verità si baceranno. Ovviamente, la verità di Gesù che custodisco non è la verità detenuta dall’islam, ma queste differenze, accettate, non sono un ostacolo a un cammino verso Dio che, se non identico, è parallelo. Esse possono addirittura stimolare un desiderio di fraternità.
Molti non possono credere a questo «amore fino in fondo», forse perché hanno sofferto a causa dell’altro e li dobbiamo comprendere. Ma per non alimentare il cumulo di sofferenze tra le comunità, è necessario aumentare il «peso specifico dell’amore». L’amarezza può portare alla disperazione e persino all’odio, l’amore conduce alla luce di Cristo, anche se passiamo per pazzi. Le quattro parole d’oro devono diventare carne della nostra carne.
(traduzione di Roberto Orlandi)