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Elena Bosetti. Comunicare la Parola

Terrasanta.net
15 ottobre 2010
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Elena Bosetti. Comunicare la Parola
Suor Elena Bosetti

Il numero di settembre-ottobre del bimestrale Terrasanta ospita un colloquio di Chiara Santomiero con la biblista Elena Bosetti, la suora «pastorella» diventata un volto noto televisivo in Italia qualche anno fa grazie a una rubrica religiosa su RaiUno. Vi proponiamo qui alcuni passaggi dell'intervista in cui la religiosa parla del suo personale rapporto con la Terra Santa e la Bibbia.


Il numero di settembre-ottobre del bimestrale Terrasanta ospita un colloquio di Chiara Santomiero con la biblista Elena Bosetti, la suora «pastorella» diventata un volto noto televisivo in Italia qualche anno fa grazie a una rubrica religiosa su RaiUno. Vi proponiamo qui alcuni passaggi dell’intervista in cui la religiosa parla del suo personale rapporto con la Terra Santa e la Bibbia.

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«La mia passione per la Parola? È un dono del Signore, una vocazione nella vocazione. Sono entrata giovanissima nelle suore di Gesù Buon Pastore, dette “pastorelle” dal fondatore, il beato Giacomo Alberione, che sognava delle suore a tempo pieno per la parrocchia e s’inventò questo femminile di “pastori”. Qui mi è stata offerta la possibilità di studiare teologia e ho sentito la necessità di trovare una modalità affinché tutte le suore potessero fare lo stesso. La mia passione per la Parola nasce proprio dalla voglia di comunicarla subito alle mie consorelle. Nonostante la giovane età, mi lasciarono organizzare una scuola teologica di tre anni per le suore del nostro ordine: delle 300 pastorelle che sono oggi in Italia, 220 hanno studiato con me. Tra i relatori del corso invitai il rettore del Biblico, il futuro cardinale Carlo Maria Martini. Lui ne fu così entusiasta che in seguito mi chiese di insegnare in Gregoriana. Era l’estate in cui morì Paolo VI, il 1978. Alla fine di questa esperienza intensissima di scuola teologica e università, mi fu proposto di andare a Gerusalemme per scrivere finalmente la tesi di dottorato. Devo a quella sorpresa della vita e all’incontro con Carlo Maria Martini la grazia grande di studiare la Parola nei luoghi in cui è stata annunciata. Andare rappresentò come un tuffo nel fascino delle Scritture e della lingua ebraica: fu a Gerusalemme che mi innamorai senza riserve della Bibbia».

Che impressione ebbe della Terra Santa?
Fu uno choc: quando entri al Santo Sepolcro per la prima volta, sei impreparato ad affrontare la realtà. Immagini di andare sui Luoghi Santi e di entrare in una dimensione contemplativa, invece ti trovi ad essere frastornato da voci oranti non molto armoniche tra loro. Una lunga permanenza in questi luoghi riesce però ad offrirti una diversa prospettiva. Al sabato – quando le porte del Santo Sepolcro vengono riaperte a mezzanotte –, ho avuto spesso la possibilità di restare chiusa dentro a pregare fino alla riapertura. Lo stare in silenzio con altri fratelli, cattolici ma anche armeni e ortodossi, nel luogo della tomba aperta, della risurrezione, dà evidenza di un ecumenismo fatto di relazioni e di stare insieme. Ho visto la «veste lacerata» della Chiesa ma anche la possibilità di ricucirla, attraverso una condivisione fraterna fatta di gesti semplici: pregare insieme nello stesso luogo, salutarsi, chiedersi come va, scambiarsi dei servizi o regalarsi piccole cose nella celebrazione diversa delle feste.

Ci sono luoghi a cui è particolarmente legata?
Il primo è il Santo Sepolcro. Il secondo è il Getsemani: poiché il santuario è gestito dai francescani, è più facile avere occasioni di raccogliersi in preghiera. La realtà del Cenacolo è complessa: da un lato ci sono i francescani e la possibilità di pregare al Cenacolino; però la possibilità di visitare davvero il Cenacolo e di stabilire relazioni con i fratelli islamici ed ebrei ha rappresentato per me, nel tempo, un’altra sfida da accogliere. Cafarnao è un altro luogo fondamentale. Possiamo vedere il lago che ha visto Gesù, immaginare la chiamata di Pietro; così come per il Tabor, c’è un grande fascino nei luoghi che sono rimasti più o meno gli stessi. Non posso più leggere la Parola senza «vedere» questi luoghi e anche quando ne parlo vorrei che la gente «vedesse» insieme a me: è fondamentale quasi dipingere la scena evangelica davanti ai suoi occhi mentre la si racconta. Quando lavoravo in tivù ho voluto ambientare diverse puntate in Terra Santa, sul lago di Tiberiade ma anche, sulle orme di Mosè, partendo da Eilat e facendo tutto il percorso nel deserto.

Qual è lo speciale legame tra la Parola e la Terra Santa?
Padre Francesco Rossi De Gasperis ama parlare della «terra del Santo». C’è un rapporto d’incarnazione perché la Parola di Dio è una parola che entra nella storia, tocca un popolo, una terra. L’incarnazione è un movimento che nasce già nell’Esodo quando Dio dice «ho visto, ho udito e sono sceso per liberarlo» e attraversa tutta la Bibbia. Un Dio che scende e che si coinvolge. E Gesù Cristo è un Dio che scende fino al grembo di Maria.
Forse noi qui non sentiamo la forza, il peso della terra, ma non si può studiare la Bibbia per davvero senza tener conto di questa terra promessa che poi è una terra dilaniata. Ricordo che quando venne a trovarmi mio padre, che era un contadino del Trentino e quindi abituato a una terra non facile, la sua reazione fu: «Ma per una terra arida, piena di sassi come la Giudea, tutte queste guerre?». È una cosa sconcertante. Si tratta di una terra che chiama ancora con un fascino irresistibile perché qui, a Gerusalemme, tutti noi siamo nati.
Questa Gerusalemme incantevole, madre spirituale di tutti i popoli, diventa anche la trasfigurazione di quello che è un grande sogno, la Gerusalemme celeste. Insomma… dobbiamo partire da quaggiù per sognare lassù! Noi sogniamo una città sposa, come quella dell’Apocalisse, quindi una Gerusalemme riconciliata, sposata, così amata che non avrà più nemmeno il Tempio perché il tempio suo è l’Agnello. Tutto questo contenuto, ricco di simboli, lo vediamo sfigurato, nel senso che il tempio non c’è più nemmeno adesso e c’è invece una moschea, luogo perenne di conflitti. Noi cristiani diciamo che non ci servono pietre e preghiamo lì dove c’è il Cenacolo, ma sappiamo benissimo che esiste un intreccio di problemi, di sofferenza e che tutto questo linguaggio che va dall’antico al nuovo, dalla rilettura della Gerusalemme di quaggiù con quella di lassù, intreccia storia, sogno, tanta speranza e fatica, tanta pazienza. Ciò che il cardinale Martini chiamava la necessità di «intercedere», lo stare in mezzo, ma con la consapevolezza che occorre camminare pregando per tutti.

La Parola può aiutare il processo di pace tra religioni, tra popoli, a partire proprio dalla Terra Santa?
Mi colpisce come in Israele, ancora prima che «buongiorno», ci sia Shemà Israel, cioè «ascolta Israele». Quando parliamo di Parola, parliamo di ascolto della Parola – o meglio l’ascolto di Colui che ci parla – e questo ci chiede anche di ascoltare gli uditori della Parola, di ascoltarci tra noi che siamo le tre religioni del Libro. L’ascolto di Dio deve metterci in ascolto del nostro cuore e delle nostre storie che sono segnate dalla Parola ma anche dal peccato, che portano i tradimenti della Parola e i suoi fraintendimenti. Le crociate da un lato e Francesco dall’altro insegnano come si possa ascoltare diversamente la Parola  e come si possa andare in Terra Santa diversamente, armati o con la mitezza del poverello di Assisi. Coloro che vi sono andati con la forza delle armi ci sono stati per un periodo – vediamo le tracce di ciò che hanno edificato -, ma quelli che sono andati alla maniera di Francesco ci sono ancora.

La Parola oggi è qualcosa che affascina o che respinge?
L’indifferenza è un virus terribile e la vera sfida di oggi è far venire un po’ di curiosità: più che dare risposte, far sorgere la domanda. Io cerco di perseguire una strategia narrativa, di raccontare le storie della Bibbia per suscitare il desiderio di saperne di più. Le Scritture  non offrono santini stereotipati: Davide, ad esempio, è un grande peccatore, adultero ed omicida e la Parola che non è imbavagliata permette al profeta Nathan di ammonire anche il re: «Tu sei quell’uomo che ha voluto per sé anche l’unica pecorella di un altro uomo».
Quando racconto queste storie, si sprigiona tutta l’energia della Parola che, di per sé, più che essere letta, andrebbe ascoltata. C’è una grande forza nell’oralità: Gesù non ha scritto, ma parlato, raccontato, è «Parola», appunto e quindi spero che sempre di più si racconti un Dio amore e si narrino le storie della Bibbia facendone scaturire l’energia attraverso la forza di chi racconta e crede. È questo che apre: c’è chi non si lascerà ferire e continuerà come prima e chi dirà «sì» e verrà alla fede.

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