Oggi in Iraq «c'è meno violenza», ma i problemi di fondo, a cominciare da quelli dell'unità, della Costituzione e della riconciliazione nazionale, «non sono stati ancora affrontati». Intanto due milioni e mezzo di bambini soffrono di malattie sconosciute fino a vent'anni fa. Lo ha detto oggi a Roma l'arcivescovo latino di Baghdad, mons. Jean Benjamin Sleiman.
(Roma) – Sette anni dopo la caduta di Saddam Hussein, in Iraq «c’è meno violenza», ma i problemi di fondo del Paese, a cominciare da quelli dell’unità, della Costituzione e della riconciliazione nazionale, «non sono stati ancora affrontati», mentre due milioni e mezzo di bambini soffrono di malattie sconosciute fino a vent’anni fa nel Paese e hanno bisogno di cure specialistiche. Con questo appello oggi l’arcivescovo latino di Baghdad, mons. Jean Benjamin Sleiman, ha descritto le difficoltà del dopoguerra in Iraq, nel corso del convegno Voci dal Vicino Oriente promosso dalla Fondazione Giovanni Paolo II nella sala Pio X, all’interno della rassegna Sguardi sui cristiani del Medio Oriente.
«C’è prima di tutto il problema dell’unità dell’Iraq – ha detto il presule – di come riunificare il Paese sia dal punto di vista dei gruppi che di quello geografico. E poi c’è la Costituzione, della quale si discute da tempo ma manca un accordo per le modifiche. Resta l’interrogativo di fondo anche su come spartire le risorse in questo Paese ricchissimo, visto che finora non si è potuta fare una legge per il petrolio».
E ancora: la riconciliazione, i diritti umani, la tenuta statuale. A otto mesi dalle elezioni, manca ancora un esecutivo a Baghdad. «Il governo aveva fatto una dichiarazione sulla riconciliazione – ha osservato Sleiman – ma nulla è stato fatto. Questi grandi problemi che non sono mai stati affrontati indeboliscono il Paese, e lo rendono vulnerabile alle influenze esterne, fino a metterlo in mano ai Paesi vicini: basti pensare che non sappiamo bene se il governo si farà in Siria, in Turchia, o addirittura in Egitto. Si aspetta persino un emissario dagli Stati Uniti».
«In questa incertezza – ha proseguito il vescovo – i cristiani si chiedono: come si potrà conciliare la democrazia e i diritti dell’uomo? Altro squilibrio è che lo Stato centrale ha meno potere di quanto non abbia ogni governo regionale della federazione in Iraq. Ad esempio sappiamo che la Turchia bombarda spesso il Kurdistan, e lo Stato centrale non può mandare neanche un soldato. Non che io auspichi una guerra, ma ci chiediamo quale governo potrà assicurare la sicurezza e la compattezza del Paese».
«A fronte di tutto ciò – ha detto ancora mons. Sleiman – i cristiani vivono oggi quattro differenti situazioni, che variano anche da una regione all’altra. Il primo gruppo è quello che ha maggiormente patito l’estremismo politico islamico: ci sono fondamentalisti che hanno voluto imporre sharia, minacciando di uccidere chi non si convertisse… Per fortuna questo non è accaduto in tutto l’Iraq, ma moltissimi sono dovuti emigrare e diventare cittadini di un Paese nel quale devono pagare una tassa per vivere. Il secondo gruppo è quello che vive in Kurdistan, dove c’è una situazione abbastanza normale e pacifica. C’è poi un terzo gruppo, una grande presenza di cristiani che vive sotto pressione psicologica e morale in varie zone del Paese: vivono schiacciati da una maggioranza islamica che vorrebbe dettare anche il modo di mangiare e di vestire. Tutto questo crea disagio. Infine ci sono poche isole di convivenza, dove la gente condivide gioie, amicizie, coesistenza, come si vede ai matrimoni, dove le famiglie cristiane e musulmane partecipano insieme ai festeggiamenti. Certamente questa convivenza non è più così entusiasta come in passato, ma almemo c’è ed è un segno di speranza per il futuro».
L’elemento comune a tutte queste situazioni, ha detto Sleiman, si chiama paura: «La paura di diventare cittadini di serie B in uno Stato islamico». «Molti non osano dirlo, ma se viene formato un governo “iraniano” la prospettiva non è delle migliori».
Occorre insomma la cooperazione e la solidarietà di tutti, ha concluso l’arcivescovo rivolgendosi ai partecipanti, per ricostruire l’Iraq, curare i bambini feriti e in situazioni di degrado e soprattutto «ricostruire l’uomo iracheno: un uomo ferito, malato, che va ricostruito nella sua cultura e va aiutato ad inserirsi in un Iraq che ancora fatica a trovare la strada del pluralismo».