Una delle definizioni più interessanti di Israele è quella che lo definisce il «cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti». Si tratta di una definizione molto meno cattiva di quanto sembri: più che gli equilibri geopolitici, fotografa quanto Israele senta come un fatto nazionale tutto ciò che accade a Washington.
Una delle definizioni più interessanti di Israele è quella che lo definisce il «cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti». Si tratta di una definizione molto meno cattiva di quanto sembri: più che gli equilibri geopolitici, fotografa quanto Israele senta come un fatto nazionale tutto ciò che accade a Washington. E lo si è visto molto bene in questi giorni in cui nel Paese gli occhi di tutti erano puntati su Obama e sulle elezioni di mid term.
Questa volta accanto all’interesse di sempre c’era ovviamente una domanda molto più specifica: questa sconfitta di Obama, largamente preannunciata, come influenzerà adesso il negoziato israelo-palestinese? Dal 26 settembre, quando è scaduta la moratoria sulle nuove costruzioni negli insediamenti, siamo in una fase di stallo. E non a caso la Lega araba aveva prorogato all’8 novembre il mandato al presidente palestinese Abu Mazen per tenere aperta comunque una porta a questi negoziati. Una data evidentemente scelta non a caso: si aspettava, appunto, che passasse il voto di mid term. Nel frattempo Netanyahu ha mandato segnali da cui si deduce che non è così improbabile che a inizio 2011 scatti un nuovo blocco (si è parlato di tre mesi più altri dieci di «moderazione») sul quale però il premier israeliano sta chiedendo a Washington contropartite. E – nel caso l’ala destra del suo governo dovesse impuntarsi – c’è già pronto Kadima, il partito di Tzipi Livni, a entrare nel governo al loro posto.
Dunque è probabile che il negoziato vada avanti. Ma la domanda resta: un Obama indebolito da questo voto quanto ci metterà la faccia? Ed è su questo che i commentatori israeliani si dividono. Arutz Sheva – l’agenzia vicina ai coloni – questa mattina già festeggia titolando: «Gli elettori a Obama: risolvi i nostri problemi prima di pensare al mondo». La destra nazionalista si sente sicura: il Congresso metterà i bastoni tra le ruote alla politica estera del presidente, che ora tornerà a più miti consigli sul tema degli insediamenti. Del resto il motivo della loro festa è molto ebraico: negli Stati Uniti hanno perso i candidati sostenuti da J Street, il movimento ebraico liberal che si pone in contrapposizione all’Aipac, il principale sponsor di una politica marcatamente filo-israeliana negli Stati Uniti. Dunque: Obama in ritirata, tutto torna come prima.
Opposta è invece l’analisi che già due giorni fa aveva scritto Akiva Eldar su Haaretz: la destra israeliana (e Netanyahu in particolare) hanno ben poco da festeggiare la sconfitta di Obama. L’articolo di Eldar è molto interessante perché cita un precedente importante: anche negli anni Novanta, durante il primo mandato di Netanyahu e nel bel mezzo del Processo di Oslo, nelle elezioni di mid term Clinton perse la maggioranza al Congresso. Ma questo non cambiò per nulla la sua politica estera. Tanto è vero che Netanyahu fu comunque costretto a firmare gli accordi su Hebron. Inoltre – aggiunge Eldar – quale sarebbe l’alternativa al blocco degli insediamenti? L’iniziativa di Arabia Saudita e Turchia al Consiglio di sicurezza dell’Onu (che in caso di fallimento dei negoziati potrebbe essere sostenuta anche da Russia e Francia) per una risoluzione che riconoscerebbe la proclamazione unilaterale di uno Stato palestinese nei confini del 1967. Per Obama vorrebbe dire trovarsi tra due fuochi: dunque farà di tutto per evitare che si arrivi a questo braccio di ferro e insisterà per sbloccare il negoziato. Morale: adesso farà pressioni su Netanyahu con ancora più forza di prima perché riparta subito il blocco degli insediamenti.
Due letture opposte, dunque. Chi ha ragione? Secondo me la risposta più vera è quella di un terzo analista: Shmuel Rosner, probabilmente il più acuto osservatore israeliano della politica Usa. Nel suo blog sul Jerusalem Post – anche lui già qualche giorno fa – scriveva che probabilmente una risposta chiara sui passi che compirà il «secondo Obama» nel negoziato israelo-palestinese oggi non ce l’ha neanche Obama stesso. «Quello che so – scrive in sintesi Rosner – è che Obama è irritato per il tira e molla di Netanyahu sul blocco degli insediamenti; ma vede anche che da parte araba lo spazio per i compromessi cui sarà necessario arrivare se questo negoziato andrà avanti è molto ridotto. Credo che Obama andrà avanti comunque – sostiene Rosner -. Ma il come è tutto da vedere».
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