Non è facile, e certamente è prematuro, tracciare un bilancio del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente che si è svolto a Roma dal 10 al 24 ottobre. Si è trattato indubbiamente, come sottolineato da più interventi, di un’occasione preziosa di conoscenza e approfondimento sulla realtà del cristianesimo orientale, nelle sue varie forme e sfaccettature. Tra i temi discussi dai vescovi: l’esodo dei cristiani dai Paesi segnati da conflitti, crisi economiche e politiche e viceversa l’immigrazione crescente nei Paesi del Golfo e nella stessa Arabia Saudita; la divisione tra le Chiese cristiane e il deficit di comunione tra le stesse gerarchie cattoliche dei vari riti presenti in Medio Oriente, con il tasto delicato della giurisdizione e del ruolo dei patriarchi all’interno della Chiesa. C’è poi il capitolo del rapporto con l’islam , un dialogo che chiede prima di tutto una piena coscienza della propria fede. Sul versante dell’incontro con l’ebraismo, serve poi proseguire la strada indicata dal concilio Vaticano II e lavorare per rimuovere le scorie della storia e i pregiudizi. E ancora la necessità di riscoprire una dimensione missionaria che è costitutiva della Chiesa stessa. Infine la vita contemplativa e la preghiera, fondamenti del rinnovamento della Chiesa. Quale linfa il Sinodo saprà offrire alla vita delle comunità del Medio Oriente?
«L’albero si giudica dai frutti», fa notare padre Frédéric Manns, biblista dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme che ha partecipato ai lavori dell’assemblea in qualità di esperto. «E l’efficacia del Sinodo verrà giudicata da ciò che produrrà. Se i vescovi dei rispettivi Paesi e dei vari riti, nei prossimi mesi, si riuniranno per discutere di liturgia, catechesi e pastorale comune, allora vorrà dire che lo Spirito Santo ha soffiato… Altrimenti sarà stata una occasione sprecata».
Tutti noi dobbiamo pregare perché non lo sia.