Anni addietro, forse un decennio fa, fui invitato a tenere una conferenza all’Ordine dei dottori commercialisti in un capoluogo di provincia, e scelsi come argomento il primato della politica rispetto all’economia. Da allora me ne convinco sempre più. Non è difficile intuire e sostenere tale primato già a livello di principio, a priori. L’«economia» infatti non è una scienza naturale, e neppure un ordinamento autonomo o auto-sufficiente, ma semplicemente il modo in cui gli uomini, quindi le società umana, organizzano la loro casa (oikos), secondo le priorità di ciascuno. Per cui, prima si deve decidere quali siano i bisogni da soddisfare, quali gli obiettivi da raggiungere, quali i principi cui attenersi – questa è «la politica» – poi si passano in rassegna le risorse a disposizione e si ordina l’impiego delle risorse in funzione delle risposte date ai quesiti sopra recensiti – e questa è l’economia. Anteporre l’economia alla politica sarebbe perciò privo di senso. L’uditorio di commercialisti, prevalentemente di formazione democristiana, era più che d’accordo.
Di questa verità ora se ne starebbe rendendo conto l’Europa, e specialmente l’Eurozona. Si era creduto di unificare innanzitutto l’economia, e specie la sua dimensione monetaria, come per esautorare la politica e risparmiarsi così il faticoso processo della sua democratica unificazione. Le iterate crisi subite da singoli Paesi, con eventuali pesanti ricadute su tutti e sull’insieme, hanno messo in evidenza le insufficienze di tali scorciatoie. Non mi si fraintenda, sono europeista convinto e deciso a sperare nel superamento di tali difficoltà, un superamento che però – per essere stabile – richiede di riconoscere finalmente la priorità dell’unione politica, alla quale si arriva con gli strumenti della democrazia, e cioè con l’«accordarsi».
Ci si potrà chiedere il perché di questo intervento riguardante un campo lontano dalla Terra Santa. Dobbiamo al lettore una risposta adeguata.
Anche in Terra Santa c’è stato chi ha pensato, a più riprese, di far precedere la pace tra le due nazioni che vi abitano, quindi l’accordo politico, dallo sviluppo economico dei Territori Palestinesi, come se esso fosse sostenibile a lungo raggio anche in assenza di un trattato di pace. Si è parlato di «pace economica». Ebbene, in verità non si vede come si possa fare. Come ha dimostrato la seconda intifada e la corrispondente repressione (2000-2003), seguite ad anni di crescenti ingenti investimenti nei Territori, andati poi in fumo o seppelliti sotto le macerie dai combattimenti, la sola economia non basterebbe. Un autentico sviluppo economico non può sussistere senza la più ampia libertà di movimento per le persone e le merci, senza la certezza del diritto e dei diritti, senza la tutela sia della proprietà che del lavoro – tutti requisiti che non si possono prevedere presenti nella condizione di territori sotto «occupazione belligerante». In altre parole, è la pace politica che crea le condizioni per il progresso economico, che diversamente rischia di risultare solo effimero.
È bene che ce lo ricordiamo in questi giorni, in cui la ricerca della pace sembra non più appassionata, ma alquanto spenta dal cumulo delle successive delusioni. Forse forse, chissà, quando queste parole saranno lette, la situazione sarà decisamente cambiata in meglio, e voglia Dio che non si cambi in peggio. Rimane comunque questo modesto consiglio agli addetti ai lavori e a chi i lavori riferisce e commenta: di non illudersi circa l’insostituibilità anche qui, e soprattutto qui, della politica.