Molti analisti pare che abbiano capito tutto su ciò che sta succedendo in Medio Oriente. Ma quello in corso è tutt’altro che un processo lineare. Diverse le forze in gioco, e nessuno oggi è realmente in grado di controllarle. Anche la retorica sulle analogie con il 1989 europeo sarebbe da accantonare. Per una serie di buone ragioni...
Invidio molto gli analisti che hanno capito tutto su ciò che sta succedendo in Medio Oriente. Quelli che anche in queste ore convulse, di fronte all’evoluzione dei fatti tra Tripoli, il Bahrein e Teheran, sciorinano letture lineari che immancabilmente danno ragione a ciò che loro avevano già scritto da tempo. Beh, io ho invece l’impressione opposta: ciò che sta accadendo è tutt’altro che un processo lineare, con forze diverse in gioco che nessuno oggi è realmente in grado di controllare. E dunque non sappiamo dove l’onda di questo 2011 delle masse (non solo arabe) ci porterà. Non a caso da Riyadh a Gerusalemme, da Washington ad Ankara (per citare anche posti dove i moti di piazza non ce li hanno ancora in casa) l’unico filo rosso vero è quello della paura. E anche la retorica sul 1989 dovrebbe almeno renderci un po’ prudenti: perché – ad esempio – c’è un abisso tra le speranze di allora e la Russia di Putin, che è stato uno dei frutti di quegli eventi.
Che dire, quindi, di quanto sta succedendo? Intanto la notizia più interessante di questi giorni – che alla fine conferma proprio quanto detto sopra – l’ho trovata su The National, il quotidiano degli Emirati Arabi: stanno facendo affari d’oro le società che offrono monitoraggi sui quotidiani del mondo arabo. Tutti oggi vogliono sapere che cosa si pensa e che cosa si scrive non solo sui gornali di lingua inglese che leggiamo anche noi, ma anche sugli altri. Può sembrare scontato e invece probabilmente non lo è. Fino ad ora, infatti, tendenzialmente dei testi arabi del Medio Oriente ci arrivavano solo le traduzioni dei video di al Qaeda o quelli rilanciati dal Memri (Middle East Media Research Institute), l’agenzia fondata dall’ex colonnello del Mossad Yigal Carmon che alla fine si concentra solo sulle invettive anti-israeliane. Uno dei motivi per cui questa ondata ci ha colti così di sorpresa è stata proprio questa incapacità a leggere la complessità di quei Paesi, oltre gli stereotipi o le voci «su misura» dell’Occidente. E ora pagheremmo profumatamente qualcuno per aiutarci a recuperare questo gap.
Detto questo ora l’argomento del giorno è ovviamente la Libia. Sul quale qui segnaliamo l’editoriale di Arab News, il quotidiano saudita, dedicato al «vento che cambia» a Tripoli. Un articolo interessante per due elementi: la sottolineatura del richiamo nelle proteste alla Libia del pre-Gheddafi e quella sul fatto che la Libia «avrebbe potuto essere una delle nazioni più ricche della Terra, se non avesse buttato via i suoi soldi per esportare i suoi sogni rivoluzionari». È interessante che lo scriva un quotidiano saudita, che a sua volta i soldi del petrolio li ha utilizzati per esportare il wahhabismo e che ha alle spalle la stessa storia di unificazione relativamente recente tra tribù realizzata dalla dinastia al Saud. Verrebbe da chiedersi se le acque siano davvero così tranquille anche a Riyadh.
Infine un ultimo articolo interessante lo segnalo dal sito di Al Ahram Weekly, il settimanale egiziano che fino a ieri era rigorosamente filo-governativo e che oggi si trova a fare i conti con i nuovi equilibri. In questo clima trova spazio questa settimana un articolo di Fatma Khafagy sulla rivoluzione che ancora manca al Cairo: quella delle donne. Molte di noi sono scese in piazza Taharir – scrive l’attivista – ma adesso chiediamo davvero pari diritti. A partire dall’istruzione, visto che il tasso di analfabetismo tra le donne in Egitto è tuttora del 30 per cento, il doppio rispetto a quello degli uomini. «Vogliamo che il nuovo Egitto sia costruito dagli uomini quanto dalle donne», è la conclusione dell’articolo. Accanto ai sogni degli islamisti e all’attivismo degli eserciti ci sono realmente anche posizioni come queste nel Medio Oriente di queste settimane. È il motivo per cui è ancora troppo presto per scommettere su come andranno a finire le cose.
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