Febbraio 2001: sono passati pochi giorni dalla sconfitta di Ehud Barak (allora leader laburista) nelle elezioni israeliane vinte da Ariel Sharon (allora icona del Likud). Il clima è teso: la seconda intifada è iniziata ormai da cinque mesi e il futuro non promette nulla di buono. L’israeliano Yossi Beilin e il palestinese Yasser Abed Rabbo – due ex-ministri che conoscono nei minimi dettagli tutto quanto è successo nel processo di pace iniziato a Oslo nel 1993 e naufragato definitivamente solo poche settimane prima al vertice di Taba – si incontrano e iniziano a lavorare intorno a un’idea: provare ad andare avanti comunque ad elaborare quel compromesso che dovrebbe mettere fine al conflitto israelo-palestinese. «Se non possiamo più farlo da rappresentanti ufficiali di Israele e dell’Anp – è il ragionamento – proviamo a farlo da semplici cittadini».
Forti della loro esperienza, sono convinti infatti che una base chiara per un accordo ormai ci sia: nel dicembre 2000 il presidente americano Bill Clinton, a mandato ormai scaduto, aveva presentato una proposta di mediazione che si spingeva molto più avanti di Camp David. Soprattutto sulla questione chiave di Gerusalemme, con il principio «i quartieri abitati dagli ebrei a Israele, quelli abitati dagli arabi alla Palestina». Secondo Beilin e Rabbo a Taba – nel vertice dell’ultima ora tenutosi il mese precedente in piena campagna elettorale israeliana – era mancato il tempo per sviluppare a dovere quelle idee. Ma le premesse ormai ci sono, l’accordo sarebbe possibile. Così, insieme a un gruppo di collaboratori, vanno avanti a parlarne per mesi, lontano dai riflettori, con il patrocinio del ministero degli esteri svizzero. Finché il 10 dicembre 2003 nasceranno ufficialmente gli Accordi di Ginevra, il piano di pace che chiunque oggi citi la formula magica «due Stati per due popoli» indica come un punto di riferimento.
Sono passati ormai dieci anni dall’inizio di questo percorso. E nel frattempo la pace in Medio Oriente, anziché dei passi avanti, sembra averne fatti parecchi indietro. Forse, dunque, è arrivato davvero il momento di chiedersi: gli Accordi di Ginevra sono ancora un’alternativa possibile? E, più in generale, quali punti di forza e quali limiti hanno lasciato in eredità?
Intanto vale la pena di ricapitolare i termini di questa iniziativa. La sua forza stava nel tentativo di andare oltre il discorso generico sui «due Stati», facendo uscire davvero il negoziato dalle segrete stanze per mettere le carte sul tavolo. Con gli Accordi di Ginevra si arrivava a discutere di mappe, di confini, di come realizzare il collegamento tra la Cisgiordania e Gaza, di quali forze di polizia avrebbero dovuto garantire l’ordine a Gerusalemme, di quale impegno avrebbe dovuto mettere in campo la comunità internazionale per garantire il rispetto di quanto concordato dalle parti. «La nostra convinzione di base è stata che “Dio sta nei dettagli” – scriveva Yossi Beilin nell’ottobre 2003 su bitterlemons.org, la newsletter che con più attenzione segue tutte le iniziative diplomatiche in Medio Oriente -. Nel senso che i dettagli non sono il posto dove si nasconde il diavolo, ma gli elementi che rendono realistico un piano di pace e che accordi di puro principio non sono convincenti riguardo alla capacità di raggiungere la radice delle soluzioni».
Su tutte le questioni intorno a cui storicamente ruota il conflitto israelo-palestinese gli Accordi provano a entrare nei dettagli. Prendiamo la questione di Gerusalemme: non ci si limita a ipotizzare una suddivisione equa, con le due parti della città come capitali dei rispettivi Stati. Si aggiunge il principio fondamentale della libertà di movimento all’interno della città vecchia, indicando anche una strada per realizzarlo: far tornare a funzionare le porte come varchi d’accesso, con sistemi elettronici che garantiscano che chi entra da una porta palestinese non esca poi in maniera incontrollata da un’altra israeliana e viceversa. Sulla questione del Monte del Tempio, poi, gli Accordi riprendono l’idea della sovranità a strati: allo Stato palestinese andrebbe la superficie della Spianata delle Moschee, a quello israeliano tutto ciò che sta sotto, con il divieto di effettuare scavi senza il consenso di entrambe le parti. Un po’ complessa da gestire, ma comunque concreta, anche l’ipotetica soluzione della questione dei profughi palestinesi, con l’idea di far rientrare in Israele una rappresentanza solo simbolica degli arabi che nel 1948 abbandonarono le loro case. Ma offrendo comunque anche agli altri una compensazione e una possibilità di scelta sul luogo in cui stabilirsi, il tutto con un impegno specifico della comunità internazionale.
Idee concrete, dunque. Su cui i promotori degli Accordi di Ginevra sono andati avanti in questi anni a lavorare: nel settembre 2009 hanno pubblicato gli Annessi, un volume di 116 pagine che va ancora più nei dettagli nel definire il profilo di questa «pace possibile». E continuano a promuovere anche incontri di alto profilo e iniziative promozionali in Israele, in Palestina e a livello internazionale. Ma il principale limite sta nel fatto che in questi dieci anni non c’è stato nessun passo avanti nella penetrazione reale di queste idee nell’opinione pubblica israeliana e palestinese.
Alla fine il limite degli Accordi di Ginevra resta sempre lo stesso: l’estrema debolezza dal punto di vista politico. Da parte israeliana ormai è il progetto dei grandi ex: insieme a Beilin – che da alcuni anni ormai si è ritirato dalla vita parlamentare – è sostenuto da un lungo elenco di ex militari ed ex membri della Knesset. Oggi, in Israele, neanche tra i gruppi di ciò che resta della sinistra c’è un partito che dica apertamente di riconoscersi in quel documento. In Palestina gli Accordi vanno bene per le trattative a porte chiuse, non per un dibattito aperto sulla fisionomia del futuro Stato palestinese. Ma la debolezza che probabilmente pesa di più è il fatto che – nonostante tutti gli elogi ai promotori – nessuna cancelleria che non sia quella svizzera abbia mai scelto di dare sostegno ufficiale a questa iniziativa. Dunque, a dieci anni di distanza gli Accordi di Ginevra restano sostanzialmente un piano di pace figlio di nessuno.
Così viene a galla un dubbio: quello che a vincere questa partita alla fine sia stato Ariel Sharon. Perché uno dei punti meno esplorati di tutta la storia è il legame molto stretto che esiste tra gli Accordi di Ginevra e il ritiro da Gaza. I primi vengono firmati il 10 dicembre 2003, il secondo viene annunciato a sorpresa per la prima volta dall’allora premier appena otto giorni dopo. E c’è un’intervista al Jerusalem Post in cui, qualche mese più tardi, spiegando la scelta che stava spaccando la destra israeliana, l’allora leader del Likud utilizza parole significative: «Non penso – sosteneva Sharon nel settembre 2004 – che gli Stati Uniti, con tutti i problemi che hanno, riusciranno a star là tutto il tempo a bloccare la presentazione di piani che potrebbero essere pericolosi per Israele. Così sono giunto alla conclusione che dovevamo trovare un’altra strada».
Dal dicembre 2003 ogni anno i promotori degli Accordi di Ginevra conducono un sondaggio parallelo in Israele e in Palestina sui principali punti enunciati dai parametri di Clinton, che sono la base di tutto il progetto. Numeri da prendere con qualche cautela: un conto è dire di sì a un’idea proposta in un sondaggio, un altro sostenerla poi davvero con un voto. Comunque c’è stato un solo momento in cui i favorevoli alle idee proposte negli Accordi di Ginevra erano maggioranza sia da una parte sia dall’altra della barricata: nel dicembre 2004, cioè subito dopo la morte di Arafat. Allora in Israele erano il 64 per cento, in Palestina il 54 per cento. In quel momento Sharon scelse ugualmente la strada di un ritiro unilaterale anziché intraprendere quella del negoziato; e la comunità internazionale gli andò dietro.
La sconfitta vera per Beilin e Rabbo è stata lì. Dopo sono arrivati la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, i razzi Qassam, l’operazione Piombo Fuso, le divisioni interne da entrambe le parti della barricata. E il consenso è costantemente sceso. Il livello minimo gli Accordi di Ginevra lo hanno toccato nel 2009, poi nel dicembre 2010, c’è stata una lieve ripresa; ma non si va comunque oltre il 52 per cento in Israele e il 40 per cento in Palestina. E finché i numeri sono questi, il piano di pace fondato sui dettagli non potrà che restare una splendida occasione persa.