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Lapierre: Non voglio tornare a Gerusalemme

Terrasanta.net
31 marzo 2011
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Lapierre: Non voglio tornare a Gerusalemme
Dominique Lapierre con la moglie Dominique.

Giunto alla soglia degli ottant’anni Dominique Lapierre, scrittore e giornalista francese noto in tutto il mondo per i suoi libri-inchiesta e i suoi romanzi (il più famoso, La città della gioia), racconta del suo amore (deluso?) per la Terra Santa, in un’intervista a Roberto Beretta pubblicata su Terrasanta di marzo-aprile 2011. Ve ne offriamo qualche stralcio.


Giunto alla soglia degli ottant’anni, Dominique Lapierre, scrittore e giornalista francese noto in tutto il mondo per i suoi libri-inchiesta e i suoi romanzi (il più famoso, La città della gioia), racconta del suo amore (deluso?) per la Terra Santa, in un’intervista a Roberto Beretta pubblicata su Terrasanta di marzo-aprile 2011. Ve ne offriamo qualche stralcio.

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«Non voglio ritornare laggiù. Non voglio vedere la spartizione di quella terra magnifica, storica, divina»… È strano, per un guascone dall’ottimismo in genere travolgente come Dominique Lapierre, un responso così netto. Fa riflettere, visto che riguarda la Terra Santa e proviene da un giornalista e scrittore che ha dedicato ben quattro anni di indagini al momento più entusiasmante della storia dell’ebraismo moderno: la nascita dello Stato di Israele; avendolo poi descritto in un bestseller internazionale firmato – come (quasi) sempre – in tandem col «fratello di penna» americano Larry Collins: Gerusalemme, Gerusalemme!, uscito nel 1971, 50 milioni  di lettori in 32 Paesi e un film. Tuttavia si tratta di un pessimismo che mostra le sue ragioni. (…)

Lapierre non ha certo dimenticato Gerusalemme; la città che – ha confessato una volta – è stata la prima tappa per il «risveglio spirituale» della sua stessa fede. Partiamo dunque dal principio…
Tutta la mia storia d’amore con Gerusalemme è cominciata con una via crucis: la strada che saliva da Tel Aviv a Gerusalemme. Erano gli anni Sessanta e all’epoca l’unica via che portava alla città santa era una strada molto stretta: la stessa percorsa dai crociati, da Saladino, dagli inglesi di Allenby nel 1917, insomma da tutti i numerosi conquistatori di Gerusalemme. Quando l’ho imboccata per la prima volta, a bordo di un taxi, ho notato lungo tutto il percorso un cimitero di camion calcinati, bruciati. Sulle portiere di ogni veicolo c’erano nomi scritti in ebraico. Ho chiesto meravigliato all’autista: «Ma che cos’è questa specie di cimitero metallico?». Lui allora ha fermato l’auto, si è girato verso di me e mi ha detto: «Lei non sa che cosa è successo qui la notte del 24 marzo 1948?». No, non ne sapevo nulla.

Nemmeno noi, lo confessiamo.
Allora mi ha raccontato la storia. Nel 1948 a Gerusalemme c’erano 100 mila ebrei, la frazione più santa della comunità giudaica mondiale, i discendenti del «resto d’Israele» che erano rimasti tra quelle mura da sempre, attraverso i secoli. Ma erano assediati dai guerriglieri palestinesi di Adb el-Kader el-Husseini e rischiavano di morire di fame e di sete. Per sfuggire a quella morsa, David Ben Gurion (il leggendario «padre» dello Stato di Israele, che però sarebbe sorto solo 4 mesi  più tardi) fece requisire tutti i camion che aveva potuto trovare nella regione giudaica, li caricò con acqua, zucchero, farina, albicocche e ogni genere di soccorsi, mobilitò degli autisti e la notte del 24 marzo 1948 un convoglio di 350 camion si incamminò verso Gerusalemme. Ma i guerriglieri arabi ne erano al corrente e avevano preparato un’imboscata: tutto il convoglio fu bruciato, tutte le provviste rubate e tutti i conducenti assassinati. Per questo erano state lasciate quelle carcasse: come testimonianze dell’inferno.

Una storia incredibile.
Infatti quel giorno, salendo verso la città santa, già pensavo che sarebbe stata l’argomento del mio nuovo libro. Immaginate: i protagonisti di quel convoglio spesso erano gli stessi superstiti delle camere a gas, ebrei sfuggiti alla Shoah che avevano attraversato l’Europa a piedi e si erano imbarcati su battelli clandestini per arrivare finalmente alla Terra promessa, e poi erano partiti in missione per salvare i fratelli di fede minacciati di distruzione… Poche ore dopo chiamavo al telefono Larry Collins, che era in America, annunciandogli di aver trovato il nostro soggetto; lui è saltato sul primo aereo. Sono seguiti quattro anni di inchiesta, intervistando più di 1.200 protagonisti – in Israele, nel mondo arabo, in America – di quella monumentale pagina della storia del nostro tempo. Ed è nato O Jerusalem.

Però lei nota anche: «In nome di Dio quanti sacrifici erano stati imposti a quella città nel corso della sua lunga storia! 17 volte distrutta, 17 volte risorta»… Ancora oggi, davanti a Gerusalemme ci si chiede se sia città dell’unità o della divisione, un problema o una chance per il mondo.
Ogni volta che scoppia una bomba in Israele o in Palestina, io piango. Sono molto pessimista per il futuro. Quando si parla a un ebreo ortodosso e costui spiega che quell’ulivo non può crescere che lì, perché si trova sulla terra donata da Dio ai suoi figli; quando poi ci si rivolge a un palestinese, il quale afferma che Maometto è partito proprio da quella roccia verso il cielo… Entrambi sono feroci nel loro antagonismo e per questo sarà sempre molto, molto difficile. Che sfortuna che Israele e Palestina non abbiano un Nelson Mandela, un uomo dotato di una visione distaccata, generosa, per condurli finalmente alla pace! Ognuno che cerchi la pace laggiù viene assassinato: Sadat, Rabin… È terribile.

Nel suo libro, 40 anni fa, lei sembrava più ottimista. Infatti narrava la vicenda di due giovani amici – uno ebreo, l’altro musulmano – che rientrano nella terra dei loro padri e si ritrovano su fronti opposti: uno nell’esercito israeliano, l’altro nelle milizie arabe.
Infatti all’epoca eravamo rimasti colpiti, in numerosi incontri, dalla scoperta di ebrei e palestinesi che riuscivano a convivere pacificamente, negli stessi quartieri, sulla medesima terra… Vede, anch’io sono un figlio della guerra. Se nel 1942, quando avevo 11 anni, mi avessero domandato: «Credi che un giorno Francia e Germania faranno la pace?»; beh, dopo il fiume di sangue e i milioni di morti tra l’una e l’altra, avrei risposto: «Mai!». Invece – e per fortuna! – non è stato così. Come mai? Perché nessun Dio aveva promesso l’Alsazia e la Lorena né alla Francia né alla Germania… (…)

E tuttavia era bello che gli ebrei tornassero alla terra promessa.
Sì. Ma oggi un’opposizione di presunte volontà divine fa sì che i popoli si scontrino senza fine. Ora c’è anche il muro… Ho passato molto tempo a Berlino con Larry Collins, quando volevamo scrivere la storia del Muro negli anni Sessanta. Ma dopo quattro mesi d’inchiesta ero talmente sconvolto da ciò che rappresentava quella tragedia storica che abbiamo abbandonato. E adesso quel muro esiste a Gerusalemme! Non posso andare a Betlemme senza passare dei check point, senza attraversare muri in cemento… È folle. Non voglio ritornare laggiù. Non voglio vedere la spartizione di quella terra magnifica, storica, divina. Quello che è diventata oggi è orribile.

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