Non si tratta (solo) di «rivolte del pane». Le nostre categorie culturali risultano riduttive davanti allo tsunami che ha travolto Nord Africa e Medio Oriente e che affonda le radici in una «richiesta di giustizia sociale e di riconoscimento di diritti» presente da anni nelle società civili del mondo arabo. Ce lo spiega Mediterraneo in rivolta, un libro di Franco Rizzi.
Non sono (solo) «rivolte del pane», come del resto gli stessi promotori hanno asserito fin dall’inizio, quelle che stanno sconvolgendo gli assetti del Nord Africa e Medio Oriente. A pochi mesi dalla caduta di Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia e di Hosni Mubarak in Egitto, mentre la Nato bombarda Tripoli e vacillano il regime siriano e quello yemenita, l’unica certezza è che «il muro della paura è caduto» perché era stato messo in conto di pagare anche un alto prezzo in vite umane «pur di non vivere più in una società del terrore, della delazione, della paura di essere spiati» scrive Franco Rizzi, docente di Storia dell’Europa e del Mediterraneo all’Università di Roma Tre, nel suo Mediterraneo in rivolta. Un saggio che rappresenta uno dei primi tentativi di analizzare le ragioni dell’«Ottantanove arabo» pur nella consapevolezza che ci vorranno altri anni per valutarne gli esiti.
Lo storico prende le mosse dalla storia di Mohamed Bouazizi, lo «Jan Palach» del mondo arabo assurto a simbolo di una generazione. E ripercorre le tappe delle rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia attingendo a piene mani sia ai commenti più autorevoli apparsi in questi mesi su Medarabnews, la testata online sul Mediterraneo da lui diretta, sia alla frequentazione trentennale della regione che gli permette di fornire ai lettori chiavi di lettura basate sugli indicatori di sviluppo umano analizzati per decenni. E che gli fanno dire, con una stoccata al cinismo dei governanti europei e allo «stupore» degli osservatori: «Non è che mancassero i segnali, è che non si è voluto vedere».
In Tunisia, scrive, l’esplosione di collera è dovuta, sì, all’impoverimento di strati consistenti della popolazione e alla disoccupazione giovanile superiore al 30 per cento, ma anche «a decenni di corruzione e repressione del dissenso» in un Paese dove il clan del presidente ha deprivato il popolo in tutti i settori dell’economia, delle infrastrutture, dell’energia. Un quadro che, insieme all’assenza di democrazia, allo smantellamento dell’opposizione e al rigido controllo dell’informazione, accomuna seppure con sfumature diverse anche l’Egitto, l’Algeria, il Marocco, la Libia e gran parte del mondo arabo. Un altro fattore comune nelle rivolte è stato l’utilizzo del web come catalizzatore e megafono dell’intera rivendicazione democratica maghrebina.
Perché tutto questo avviene ora? L’autore è convinto che non siano stati solo l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, l’impoverimento della classe media con il calo del turismo causato dalla crisi mondiale e la pressione demografica di Paesi dove più del 50 per cento della popolazione ha meno di 30 anni a far deflagrare la protesta. Dalla Tunisia alla Libia di Muammar Gheddafi, lo storico dimostra come l’elemento di continuità fra passato e presente che è alla base delle sollevazioni popolari siano le politiche predatorie che prima con lo sfruttamento coloniale, poi con la «rapina della classe al potere nei vari Paesi» hanno di fatto espropriato i popoli della regione a vantaggio di pochi oligarchi. Per Rizzi la chiave di lettura delle rivolte va cercata nel «problema del riconoscimento dell’identità del popolo arabo, della sua dignità nei confronti dei propri governanti e nei riguardi dell’Occidente».
Mediterraneo in rivolta si presenta come un saggio di agile lettura che non risparmia critiche ai leader europei, i quali, dopo aver sostenuto e protetto i regimi arabi per decenni in nome degli interessi energetici e della realpolitik, appaiono oggi intenti a proiettare sulle piazze arabe le loro paure dei clandestini e dei fondamentalisti. Ma appaiono soprattutto alle prese, scrive l’Autore, con «le nostre contraddizioni e la nostra incapacità, in quanto europei, di elaborare una corretta politica mediterranea». Perché ad esigere una risposta politica e non militare da parte dell’Unione Europea sono proprio i protagonisti delle rivolte arabe: gli harraga, i clandestini, «coloro che bruciano i propri documenti e la propria identità nella speranza di ottenerne un’altra al di là del Mediterraneo». Se anche in questi Paesi avverrà una transizione verso la democrazia, il problema dell’emigrazione resta. Perciò, avverte Rizzi, «la necessità è quella di attrezzarsi in tempo: da una parte seguendo e sostenendo pubblicamente il processo verso la democrazia in questi Paesi del sud del Mediterraneo, e dall’altra mettendo in atto politiche di intervento e di sostegno dell’economia che, inevitabilmente, uscirà stremata dalla transizione».