Quale posizione i cristiani devono adottare di fronte a ciò che sta accadendo nel mondo arabo? L’interrogativo corre sulla bocca di tutte le comunità che vivono nella vasta area che si estende dal Marocco all’Iraq. Nessuno, infatti, può essere certo che il «dopo» sarà migliore della situazione attuale. Questo dilemma preoccupa in particolare la comunità cristiana che vive in Siria. A differenza dei confratelli d’Egitto, che hanno esitato non poco prima di pronunciarsi a favore del cambiamento, qui le autorità ecclesiastiche sono decisamente contrarie a fare la stessa scelta e si mostrano fiduciose nelle riforme promesse dal presidente Assad. Anzi, alcuni prelati hanno fatto proprie le posizioni governative che minimizzano l’intensità della repressione oppure parlano di complotti e infiltrazioni dall’estero, bollando i rivoltosi come salafiti e terroristi.
Come si spiega questa posizione? Di sicuro, la sindrome irachena è davanti agli occhi di tutti, in un Paese che ha accolto il maggior numero di profughi cristiani iracheni. Da comunità tutelata e relativamente libera sotto il governo di Saddam Hussein, i cristiani hanno dovuto subire ogni sorta di soprusi nello scenario post-dittatoriale. La posizione dei cristiani siriani si rafforza ulteriormente nel constatare che, nell’Egitto post-Mubarak, la posizione aperta della Chiesa non ha valso ai cristiani un trattamento migliore rispetto al periodo precedente. Episodi tristi, come i violenti scontri interconfessionali a Embaba, le manifestazioni di protesta contro la nomina di un governatore «infedele» copto a Qana e i recenti scontri al Cairo tra cristiani e musulmani (il 7 maggio, bilancio 12 morti e oltre 200 feriti – ndr) non lasciano certo presagire che il miglioramento sperato sia in arrivo. Non solo. A differenza di altri Paesi arabi, dove il cambiamento sottintende il passaggio da un regime dittatoriale a uno democratico (almeno, così si spera), in Siria esso sottintende anche il passaggio da un regime minoritario, quella alauita (l’13 per cento della popolazione), a un regime a guida sunnita (il 74 per cento). Nonostante certi aspetti negativi, il carattere laico del partito Baath ha comunque assicurato ai cristiani un trattamento tendenzialmente egualitario che altri cristiani arabi hanno raramente conosciuto.
Il punto è che la politica di «alleanza tra minoranze», adottata dal regime siriano, abbinata a una dura repressione militare del movimento dei Fratelli musulmani negli anni Ottanta, ha rafforzato la coesione di molti cristiani attorno a un governo che essi considerano «garante» della loro sopravvivenza. Altri manifestano un’estrema prudenza verso un potere che li protegge nell’immediato, ma potrebbe esporli a ritorsioni da parte di un futuro governo sunnita. Pochi hanno colto l’importanza di favorire uno Stato di diritto, in cui nessuna comunità si ponga come antagonista rispetto a un’altra comunità. Come quella donna cristiana di Homs che piangeva la morte di suo figlio ucciso durante le manifestazioni di protesta contro Assad e che si è vista consolare da centinaia di altri manifestanti che gridavano: «Siamo tutti figli tuoi!». Perché chi porta il nome di cristiano non può cadere nella logica della difesa di un privilegio di parte, ma deve pensare al bene di tutti. Beninteso, un altro metro di misura deve essere questo: che la libertas Ecclesiae non sia violata dove esiste già, e sia garantita laddove ancora non c’è. Perché la libertà religiosa, come ebbe a dire pochi mesi fa il Papa, «è elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice».