L'ultimo numero della rivista Terrasanta contiene un'intervista di Cristina Uguccioni a monsignor Giancarlo Bregantini, già vescovo di Locri-Gerace e dal 2007 arcivescovo di Campobasso-Bojano. Il presule parla del suo rapporto con la Terra Santa, luogo di dolore e speranza. Vi proponiamo alcuni passaggi della conversazione.
(Milano) – L’ultimo numero della rivista Terrasanta propone un’intervista di Cristina Uguccioni a monsignor Giancarlo Bregantini, già vescovo di Locri-Gerace e dal 2007 arcivescovo di Campobasso-Bojano. Il presule parla del suo rapporto con la Terra Santa, terra di dolore e speranza. Vi proponiamo alcuni stralci della conversazione.
I pellegrinaggi in Terra Santa sono importanti per vivere con maggiore pienezza e intensità l’amicizia con Gesù. Lei con quale stile li ha vissuti?
Il pellegrinaggio è una delle esperienze più belle che si possano fare, specialmente se viene vissuto al culmine di un cammino di fede maturato lentamente nell’ascolto della Parola. È un aiuto immenso sul piano spirituale poiché concretizza la Parola, la rende ancora più intensamente vera. Ma deve essere ben preparato e ben vissuto, ossia vissuto in stile sobrio, penitenziale: bisogna essere capaci di accontentarsi dell’essenziale senza pretendere né comodità né lussi, ed è importantissimo incontrare i luoghi del dolore di oggi. Può anche essere utile tenere un diario, da rileggere e meditare al ritorno.
Le guide non devono essere enciclopedie ambulanti, non è necessario dire e spiegare tutto, più importante è far risuonare nel cuore dei pellegrini le parole di Gesù là dove Lui le pronunciò. Puntare sull’essenziale: questo è lo stile che io consiglio.
Qual è per lei il luogo simbolo di Gerusalemme?
Per me resta e resterà sempre il sepolcro vuoto: lì è stato posto Gesù, da lì è rinata la vita dopo la morte, da un sepolcro nuovo collocato in quello che allora era un giardino, come riferisce il Vangelo (Gv 19,41). Mi piace l’immagine del giardino: io la utilizzo spesso perché è una parola chiave della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. Nel cuore di quel giardino che oggi è la Palestina c’è il sepolcro vuoto, simbolo delle lacrime e della speranza, del dolore e della gioia della risurrezione.
In quali occasioni più spesso ricorre all’immagine del giardino?
Io la uso spesso quando mi rivolgo ai ragazzi e ai giovani: a loro mi piace proporre il verso di un poeta: «Senza cielo la terra si fa fango, con il cielo la terra si fa giardino». È proprio così: senza il cielo la terra resta il fango dal quale siamo stati tratti, ma con il cielo essa diventa quel giardino dove Dio ci ha posto e al quale siamo destinati.
Tornando alla Palestina, ecco io sono convinto che quella terra è davvero il luogo dove scopri di essere intessuto di terra, di fragilità, di dolore e divisione, ma allo stesso tempo è il luogo dove – molto più che altrove nel mondo – scopri il giardino con le sue bellezze: bellezze architettoniche, letterarie, archeologiche, paesaggistiche, spirituali. Noi siamo chiamati a essere custodi di questo giardino. Ma ogni terra, non solo la Palestina, è un giardino da custodire con amore e dedizione: penso ad esempio a Napoli, a come potrebbe splendere se venisse custodita e valorizzata.
È un’immagine che utilizza anche parlando del lavoro?
Sì: è importante dire a un giovane che inizia una qualsiasi esperienza professionale: «Tu lavori per rendere bello il giardino in cui sei chiamato a fiorire». L’uomo non lavora semplicemente per guadagnarsi la pagnotta, lavora per rendere bello il giardino e sbocciare come uomo. I giovani hanno bisogno di sentirselo dire, hanno bisogno di guardare la vita da questa prospettiva».
A suo giudizio vi è una qualche somiglianza tra le faide familiari che si sono registrate in alcune zone del nostro paese e la spirale di violenza che da decenni insanguina la Palestina contrapponendo israeliani e palestinesi?
«Sì, indubbiamente. La faida, in Calabria, è terribile e ha molte somiglianze con quanto avviene in Palestina. Ricordo una scena: un giorno come vescovo avevo cercato di gettare un seme di pace in una famiglia nella quale il marito era stato ucciso: d’un tratto la vedova si alzò di scatto e mi mostrò il giubbotto del marito sul quale erano visibili i fori dei proiettili. «Guardi questo giubbotto: vede come l’hanno ucciso? Io tutti i giorni dico ai miei figli: voi dovete vendicare vostro padre». Quei ragazzi stanno crescendo nella logica della vendetta, una logica simile a quella presente in Palestina.
Purtroppo le mamme possono essere tragicamente coinvolte e addirittura alimentare la violenza.