La Chiesa tunisina guarda «con gioia e speranza» alla nuova fase storica avviata nel Maghreb lo scorso 14 gennaio e alle elezioni per l’Assemblea costituente convocate per il 23 ottobre prossimo. Nella sua nuova lettera pastorale, l'arcivescovo di Tunisi, mons. Maroun Lahham, ravvisa un disegno provvidenziale nella fase storica che il Paese sta attraversando.
(Milano) – Pur non avendo avuto un ruolo nella Rivoluzione dei gelsomini, la Chiesa tunisina guarda «con gioia e speranza« alla nuova fase storica avviata nel Maghreb lo scorso 14 gennaio e alle elezioni per l’Assemblea Costituente convocate per il 23 ottobre. L’arcivescovo di Tunisi, mons. Maroun Lahham, ravvisa un disegno provvidenziale nella Primavera araba nella lettera pastorale Ecco, io faccio nuove tutte le cose (Apocalisse 21, 5), datata 24 luglio 2011.
Palestinese, 63 anni, dal 2005 a capo dell’unica diocesi tunisina formata da circa 21mila fedeli, nelle 22 pagine in francese della sua quarta lettera pastorale mons. Lahham prende le mosse dalle sfide che deve affrontare una Chiesa «estranea» in un Paese «profondamente marcato dalla mentalità musulmana», a cominciare dall’invecchiamento del clero in una comunità che non dispone di vocazioni locali. Ma la grande novità è senz’altro quella dettata dalla Rivoluzione tunisina: «Dopo il 14 gennaio nulla sarà più come prima», anche per la vita della Chiesa.
Tra i segni di una «Storia santa» della Tunisia, mons. Lahham vede innanzitutto «una grande lezione di umiltà» per la Chiesa. Una lezione impartita dalla sollevazione che ha sorpreso il mondo, che ha portato alla caduta di una dittatura quasi trentennale e che, «grazie alla libertà ritrovata, è servita come detonatore per tutti i popoli arabi».
«I giovani, ma non solo loro – scrive il presule – chiedono libertà, dignità, giustizia, democrazia, libertà di parola, accesso ai media». Istanze che vanno di pari passo con «il cammino lento ma deciso verso la democrazia, il ritorno dei partiti islamici con i timori che essi provocano, il pericolo di un periodo di vuoto politico ed economico nella transizione verso elezioni libere e democratiche». Tutto questo chiede alla Chiesa «di farsi povera» nel servizio al popolo tunisino ma anche «accettare di operare in un Paese musulmano quasi al 100 per cento», il che vuol dire «non solo testimoniare la fede in Gesù Cristo, ma anche scoprire nella vita di quel popolo non cristiano i doni che Dio gli ha fatto per arricchire la nostra fede».
I tre motivi di «grande gioia e speranza» dopo la cacciata del presidente Zine El Abidine Ben Ali sono «l’incontro con persone che tornano a godere dei loro diritti civili dopo decenni, e che bussano alle nostre porte in cerca di serenità, di fiducia e di amicizia, quando non di orientamento per la loro vita ed il loro credo». Un fenomeno «relativamente nuovo» che, avverte, «richiede grande prudenza, discernimento e preparazione ma che ci porta un’immensa gioia». C’è poi la lietezza «per la constatazione della continuità della missione in Tunisia ma anche per i nuovi campi di attività e carismi che appaiono nella vigna del Signore». La gioia infine è causata dalla possibilità «soprattutto dopo il 14 gennaio di fare da ponte fra due mondi, due culture, due storie e due grandi religioni». «La nostra gioia – rimarca – riguarda il nostro Paese d’adozione, la Tunisia, ma non si ferma ad esso. I Paesi arabi stanno vivendo ciascuno nel suo particolare contesto una primavera promettente che seguiamo con realismo e ottimismo».
L’arcivescovo ravvisa perciò un disegno provvidenziale anche nel sacrificio di Mohamed Bouazizi, lo «Jan Palach» del mondo arabo assurto a simbolo di una generazione, la gioventù araba, che non accetta più di essere sottomessa a regimi dittatoriali (il 17 dicembre 2010 Bouazizi, ventiseienne venditore ambulante di frutta e verdura, si diede fuoco davanti al palazzo del governatore della cittadina di Sidi Bouzid, per protestare contro la confisca delle sue merci da parte della polizia locale. È morto per le ustioni il 4 gennaio 2011 – ndr). «Agli occhi della fede – scrive Laham – l’immolazione di un giovane che si è dato alle fiamme, questo immenso grido di disperazione, e la catena degli avvenimenti che sono seguiti, sono strettamente collegati al Mistero pasquale, un mistero di sofferenza, di morte e di Risurrezione. Se il grande movimento che attraversa il popolo tunisino, il grande vento di giustizia, la sete di pace, l’aspirazione profonda alla dignità non hanno nulla a che vedere con la morte e la Risurrezione del Cristo, allora siamo seduti su di una grande nuvola e stiamo vivendo un’illusione passeggera. Ma se un rapporto esiste tra il Mistero pasquale e la nostra storia, abbiamo allora il dovere di aprirci a questa storia».
Ecco perché quel che la Chiesa si augura per la Tunisia è che il Paese arrivi con una transizione pacifica ad un regime democratico «dove trovino posto tutte le aspirazioni spirituali e religiose dei suoi cittadini», che trovi il cammino «per riconciliare la fede nel Dio unico e i doni della modernità» e che «possa affrontare i pericoli, le derive e le pressioni interiori ed esteriori». Perché, rimarca la lettera pastorale, anche se la Chiesa è «certamente per la separazione “fra moschea e Stato”, diciamo con forza che una società democratica sana deve avere come base dei valori che hanno radici religiose (libertà, uguaglianza, pace, rispetto, scelta preferenziale per i poveri, solidarietà…)». Come affermarono, ricorda il vescovo, anche i padri fondatori dell’Europa unita e come dimostrano le attuali forme di miopia dell’Occidente, in primo luogo con il respingimento degli immigrati.
Mentre il Paese si avvia alle elezioni per l’Assemblea costituente del 23 ottobre, il presule conclude con un appello «a restare aperti alle sorprese delle Spirito, al non ancora della nuova Tunisia, dove nulla ancora è stato deciso e dove tutto è in divenire». Un appello alla speranza, su pagine lasciate volutamente in bianco, perché siano scritte dai tunisini e soprattutto dai giovani.