Non sono stati il milione che gli organizzatori avevano sognato. Ma i 450 mila che sabato sono scesi in piazza tra Tel Aviv e alcune altre città hanno comunque dato vita alla più imponente manifestazione della storia di Israele. Prova di forza di un movimento che in sole sette settimane ha portato la questione sociale al centro del dibattito in Israele...
Non sono stati il milione che gli organizzatori avevano sognato. Ma i 450 mila che sabato sono scesi in piazza tra Tel Aviv e alcune altre città hanno comunque dato vita alla più imponente manifestazione della storia di Israele. Prova di forza di un movimento che in sole sette settimane ha portato la questione sociale al centro del dibattito in Israele.
Ho avuto modo di vedere con i miei occhi – nello scorso luglio – i primi passi del movimento delle tende e quello che fin dall’inizio mi aveva colpito di più era stata l’eterogeneità delle provenienze. Per questo credo che chi in questi giorni ha fatto il titolo definendoli gli «indignados» israeliani ha capito ben poco di quanto è accaduto in cinquanta giorni intorno a Rothschild Boulevard.
Primo perché anche se l’iniziatrice del movimento è stata una studentessa – Daphni Leef, che ha scelto di piantare una tenda nel bel mezzo degli attici di Tel Aviv per protestare contro l’aumento dell’affitto – questo movimento non è fatto solo da giovani: in piazza si sono viste anche moltissime famiglie. Secondo perché la questione cruciale intorno a cui la protesta è nata qui non è il lavoro, ma la casa e i tagli allo Stato sociale. Terzo – e probabilmente più importante – perché questo è un fenomeno che ha una sua dimensione specifica israeliana. E che a partire dalla storia recente di questo Paese va letto. Perché il movimento delle tende è lo specchio di una crisi di rappresentanza: sono vent’anni ormai che in Israele la questione sociale è completamente scomparsa dall’agenda della politica. Un fatto paradossale in un Paese in cui in tutte le scuole si studia ancora l’epopea dei kibbutz. Il simbolo più chiaro di questa crisi è il declino del Partito laburista, che più di ogni altro negli ultimi vent’anni è stato il partito degli ex generali più che degli ex sindacalisti.
Dall’inizio degli anni Novanta ad oggi – mentre si discuteva all’infinito su temi come il conflitto, il processo di pace, la sicurezza – il volto della società israeliana è radicalmente cambiato. Sono stati in particolare il primo governo Netanyahu e quelli guidati da Ariel Sharon a smantellare – in nome della ricetta liberale – tutto quello che era rimasto dell’impronta socialisteggiante che avevano dato allo Stato d’Israele i suoi fondatori. Sono stati gli anni delle privatizzazioni, ma – va detto – anche del miracolo economico israeliano, trainato dal boom dell’high tech. Gli anni in cui si parlava di Tel Aviv come della Silicon Wadi, la Silicon Valley a un passo dal deserto. Ma tutto questo ha avuto un prezzo in termini sociali, di cui la bolla immobiliare è stato il simbolo più chiaro: la politica ha guardato smaccatamente più agli interessi delle società finanziarie che ai bisogni della gente. Così si sono moltiplicate le torri e gli attici di lusso, che si vendono bene agli ebrei della diaspora che in Israele ci vengono due o tre settimane all’anno. Ma per una famiglia normale trovare casa a un prezzo ragionevole è diventata un’impresa.
Non è un caso che sabato sera una delle espressioni che andavano per la maggiore in piazza fosse «nuovi israeliani». Dietro a queste manifestazioni c’è un forte desiderio di non lasciarsi ingabbiare nei soliti schemi: destra-sinistra, laici-religiosi, militari-pacifisti, ashkenaziti-sefarditi eccetera. Ma proprio per questo il dopo resta una scommessa: ora che la questione sociale è entrata nell’agenda della politica israeliana – è stata istituita una commissione ad hoc per un confronto con i leader della protesta – gli accampamenti sono stati smantellati. La verità è che i «nuovi israeliani» restano una galassia molto eterogenea e tuttora privi di una rappresentanza politica vera. Lo testimonia un sondaggio condotto dalla radio Voice of Israel e rilanciato da Arutz Sheva: nonostante quest’estate calda se si andasse a votare oggi il Likud di Benjamin Netanyahu confermerebbe i suoi seggi, con addirittura i suoi alleati Yisrael Beitenu (il partito di Liberman) e lo Shas che ne guadagnerebbero uno a testa. Viceversa sarebbe un tracollo per Kadima di Tzipi Livni e per i laburisti, avvertiti lontani dal popolo delle tende. Anche Dahlia Scheindlin su +972, il blog che fin dall’inizio ha seguito con più attenzione la protesta, confessa che dai ranghi del popolo di Rotschild Boulevard potrebbero nascere addirittura tre partiti diversi. Va anche detto – però – che a favore della protesta si è schierato fin da subito anche Yair Lapid, giornalista popolarissimo, fustigatore dei politici israeliani, di cui da tempo si vocifera una possibile «discesa in campo» con un suo movimento. Alla fine sarà lui a capitalizzare la forza della piazza dell’estate 2011?
È troppo presto per dirlo. Resta il fatto che il movimento delle tende in poche settimane è già riuscito a lasciare un segno profondo in Israele. Comunque vada a finire ha mostrato quanto l’israeliano medio sia stanco della retorica sopra le righe e desideri vivere in un Paese normale. Quanto poi tutto questo sia davvero possibile senza affrontare anche il nodo del rapporto con i Territori palestinesi resta un altro paio di maniche.
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