Sono giornate in cui si naviga a vista in Medio Oriente: nelle ultime ore abbiamo assistito all'assalto ai locali dell'ambasciata israeliana al Cairo, alle prove di forza del premier turco Recep Tayyip Erdogan, alla Siria che continua a bruciare. E il tutto a ormai poco più di una settimana dall'Assemblea generale dell'Onu dove si discuterà del riconoscimento dello Stato palestinese...
Sono giornate in cui si naviga a vista in Medio Oriente: nelle ultime ore abbiamo assistito all’assalto ai locali dell’ambasciata israeliana al Cairo, alle prove di forza del premier turco Recep Tayyip Erdogan – sempre più deciso a mostrare i muscoli della Turchia, di nuovo potenza regionale -, alla Siria che continua a bruciare. E il tutto succede a ormai poco più di una settimana dall’Assemblea generale dell’Onu dove si discuterà del riconoscimento dello Stato palestinese. Per chi ancora non lo avesse capito (e purtroppo sono in molti) la pagina ormai è voltata: a questo punto è del tutto inutile ripetere i soliti mantra generici sul negoziato di pace; siamo alle prese con uno scenario completamente nuovo che probabilmente va affrontato anche con risposte nuove.
Partiamo dall’Egitto: che cosa è successo davvero venerdì al Cairo? Due articoli ci aiutano a leggere meglio l’assalto all’ambasciata israeliana dentro il momento potenzialmente esplosivo che il Paese sta vivendo. Come si ricorderà, la miccia che ha dato fuoco alle polveri è stata l’uccisione di alcuni soldati egiziani scambiati erroneamente per terroristi dai militari israeliani subito dopo la strage di Eilat, qualche settimana fa. Ma è stata – appunto – solo la miccia. Perché l’ostilità generale della popolazione egiziana nei confronti della «pace fredda» con Israele dura almeo dall’ultima guerra di Gaza. Come mai, allora, proprio venerdì si è arrivati all’assalto dell’ambasciata?
Come racconta bene il quotidiano saudita Arab News la risposta non va cercata solo dentro ai rapporti tra Egitto e Israele. L’assalto è stato infatti un atto contro la giunta militare che guida la «transizione» al Cairo, non meno che contro lo Stato ebraico. Lo stesso giorno – ma con molta più gente – si era svolta una manifestazione in piazza Tahrir per chiedere una più veloce transizione alla democrazia. Manifestazione che, come successo inizialmente a gennaio, è stata boicottata dai Fratelli Musulmani. I quali – peraltro – non sono stati protagonisti nemmeno dell’assalto all’ambasciata di Israele: come ha raccontato infatti sul blog The Arabist Ursula Lindsey il ruolo principale l’hanno avuto gli ultras delle due squadre del Cairo, gruppi decisamente lontani dagli schemi classici dell’islamismo. Tutto questo per dire che in Egitto oggi il pericolo non sono solo i Fratelli Musulmani; ci sono anche i risentimenti di chi ha creduto nel cambiamento e oggi lo vede bloccato dai militari; e poi i gruppi che in Italia chiameremmo «antagonisti». Una miscela altrettanto pericolosa. Con l’opposizione a Israele che rischia di diventare – come sempre – la valvola di sfogo di tutto. E non solo in Egitto: per giovedì anche in Giordania è stata annunciata una grande manifestazione contro l’ambasciata israeliana.
Proprio perché la situazione in tutta la regione è così delicata, però, diventa cruciale la questione del dibattito all’Onu sullo Stato palestinese. Domenica il New York Times aveva un editoriale molto forte in proposito in cui si diceva senza mezzi termini che i tentativi di scongiurare il voto o di depotenziarlo ormai sono fuori tempo massimo. Perché non si può far finta di ignorare che a questo voto – annunciato da due anni – si arriva perché ogni tentativo di negoziato si è rivelato inconcludente. E allora occorre rendersi conto che è del tutto finito il tempo in cui era sufficiente far negoziare tra loro israeliani e palestinesi, quasi che una fotografia di Benjamin Netanyahu e Abu Mazen che si stringono la mano potesse avere effetti taumaturgici. Se non si vuole dare un comodo alibi per far precipitare l’intero Medio Oriente nel caos oggi sulla questione palestinese occorre tirare fuori soluzioni, mappe, posizioni chiare. Il voto all’Onu sarà un pronunciamento sulla teoria perché non avrà nessun effetto pratico. Ma sarà comunque un voto dall’esito scontato: il mondo ritiene giusto che nasca lo Stato palestinese e che la questione non sia più rinviata alle calende greche. Proprio per questo, allora, se si ha davvero a cuore il destino di Israele, ha più senso mettere i bastoni tra le ruote o muoversi per far sì che questo Stato nasca in una maniera che garantisca la sicurezza di Israele e la stabilità dell’intero Medio Oriente?
Haaretz ieri ci informava che l’intelligence israeliana sta dicendo a Netanyahu che – per uscire dal vicolo cieco dell’isolamento diplomatico in cui si è cacciato – sarebbe un’esigenza vitale far ripartire al più presto il negoziato con i palestinesi. Detto così è una pia illusione. Ma se davvero l’Assemblea generale dell’Onu diventasse l’occasione per il lancio di un’iniziativa diplomatica forte da parte del Quartetto – un’iniziativa basata sull’idea che lo Stato palestinese dopo vent’anni di discussioni ormai non può più essere una mera teoria -, solo un premier intenzionato a portare Israele al suicidio oggi potrebbe tirarsi indietro.
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