Gli occhi di tutti sono rivolti in queste ore all’Onu per il voto sullo Stato palestinese, di cui parlavamo già la settimana scorsa. Ma - come succede sempre, purtroppo - siamo pieni di analisi ideologiche riguardo a questo nuovo capitolo della saga israelo-palestinese. Allora proviamo a parlarne prendendo le mosse da tre notizie che a prima vista sembrerebbero non c’entrare per nulla.
Gli occhi di tutti sono rivolti in queste ore all’Onu per il voto sullo Stato palestinese, di cui parlavamo già la settimana scorsa. Ma – come succede sempre, purtroppo – siamo pieni di analisi ideologiche riguardo a questo nuovo capitolo della saga israelo-palestinese. Allora proviamo a parlarne prendendo le mosse da tre notizie che a prima vista sembrerebbero non c’entrare nulla. E invece sono molto utili per riportare questo dibattito a ciò che è la vita reale oggi in Israele e Palestina.
La prendiamo davvero da molto lontano, ma c’è una notizia di questi ultimi giorni che mi ha letteralmente lasciato a bocca aperta: Haaretz ha rilanciato l’allarme dell’Autorità israeliana dei parchi riguardo al moshav Fatzael, una fattoria nella Valle del Giordano dove (udite, udite) si allevano coccodrilli. Ma non due o tre: attualmente sono 2.500. E alcuni di loro l’altra settimana sono riusciti a scappare, anche se i gestori assicurano di averli recuperati tutti. Si potrebbe evidentemente fare della facile ironia sui coccodrilli che sguazzano nei palazzi della politica non solo a Gerusalemme e Ramallah. Ma la questione è ben più seria perché è emblematica di un certo modo di fare (che è poi lo stesso utilizzato finora rispetto al conflitto). Quattro anni fa – infatti – c’era stata una commissione di esperti che aveva sollevato gravi perplessità sul moshav che alleva coccodrilli. E che cos’era successo? Al ministero dell’Ambiente era spuntato un codicillo ad hoc per evitare che venisse chiuso. Pur di non mettere i bastoni tra le ruote all’impresa pionieristica di qualche israeliano patito degli animali esotici si è lasciato che una situazione potenzialmente pericolosa crescesse. Tutto questo non vi ricorda vagamente qualcosa? Dietro non c’è la stessa idea che ha portato gli insediamenti a diventare ciò che sono oggi?
Ma anche nella Palestina (ancora innominabile per Israele) c’è poco da stare allegri. Anche lì a catturare il mio interesse è stata una notizia in qualche modo collaterale: mentre volava a New York Abu Mazen ha candidamente dichiarato che al suo ritorno, dopo il dibattito alle Nazioni Unite, non ci sarà bisogno di nessun nuovo governo. Dunque, ricapitoliamo: da febbraio il governo di Salam Fayyad è ufficialmente dimissionario, l’accordo di riconciliazione nazionale firmato ai primi di maggio tra le fazioni è rimasto (come tutti i precedenti) lettera morta, perfino le elezioni municipali qualche settimana fa sono state rinviate sine die. Il tutto in una realtà dove non c’è più una sola autorità legittimata dal voto popolare, essendo anche lo stesso mandato di Abu Mazen ampiamente scaduto. Non sono esattamente le credenziali migliori per un Paese che vorrebbe proclamare la sua indipendenza.
Chi fa le spese di tutto questo? Ovviamente i più deboli e i più indifesi. E vengo alla terza notizia della settimana: la riprendo dal sito del vicariato dei cattolici di lingua ebraica che rilancia un servizio di Walla News, un popolare portale di informazione israeliano. Ci sono altri cento bambini figli di lavoratori stranieri (in maggioranza filippini) a rischio di deportazione per l’assurda legge israeliana che nega il diritto di famiglia agli immigrati. È una vicenda di cui ho parlato più volte in questo spazio. Con una novità che, però, vi siete persi perché in Italia quasi nessuno ne ha parlato: dopo mesi di minacce in agosto Ofek Castillo, una bambina filippina di 4 anni sempre vissuta in Israele, è stata rispedita davvero in aereo a Manila con la mamma nonostante suo padre sia un immigrato regolare. Questa storia – che lede un diritto umano fondamentale – è passata via tra l’indifferenza del mondo. Nessuno parlerà del caso di Ofek all’Assemblea generale dell’Onu: non interessa né ai filo-israeliani né ai filo-palestinesi. Per questo altre 100 famiglie di lavoratori stranieri in Israele oggi hanno molta paura.
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