Il Decalogo è la più celebre delle griglie con cui giudicare se un uomo agisce bene oppure male? Haim Baharier, esponente di spicco del pensiero ebraico in Italia propone nelle poche, densissime pagine che costituiscono questo libro una lettura diversa, originale e vertiginosa, di ciò che viene raccontato nel libro dell'Esodo, quando gli ebrei sfuggiti agli egiziani attraverso il Mar Rosso, ricevettero da Dio la loro «costituzione».
Non ucciderai. Non fornicherai. Non rapirai… Non è il Decalogo la più celebre delle griglie con cui giudicare se un uomo agisce bene oppure male? Dieci comandamenti descrivono, in positivo e in negativo, il rapporto tra l’uomo e la giustizia e, sotto la luce della giustizia, anche il rapporto tra l’uomo e Dio. C’è letteratura più vasta di quella che descrive la dinamica antica dell’uomo di fronte al bivio di una condotta retta o iniqua, quella in cui dalla legge scaturiscono l’obbedienza e la trasgressione, il premio, la punizione o il perdono? In questi binari si inscrive di solito ogni discorso che concerne l’incontro tra Dio e il suo popolo, rappresentato da Mosè, sul monte Sinai.
Ma Haim Baharier, esponente di spicco del pensiero ebraico in Italia, uomo dalla formazione poliedrica e dai maestri illustri (Emmanuel Lévinas, per esempio, o il rabbino Israel di Gur) propone nelle poche, densissime pagine che costituiscono il suo Le dieci parole una lettura diversa, originale e vertiginosa, di ciò che viene raccontato nel diciannovesimo e ventesimo capitolo di Esodo, quando gli ebrei sfuggiti agli egiziani attraverso il Mar Rosso ricevettero da Dio la loro «costituzione».
Le «dieci parole» smettono il loro abito imperativo ed inquisitorio per divenire promesse che infallibilmente si attueranno; esse sono un «momento» della creazione, l’annuncio di perfezione che attende di realizzarsi nella storia dell’uomo secondo il progetto della libertà creativa di Dio, una tappa intermedia del cammino per cui l’umanità viene condotta dal nulla al suo compimento, dalla schiavitù esteriore ed interiore all’emancipazione. È questione di propedeutica, più che di profezia: Baharier svela il Dio che si cela tra le molteplici possibilità della lingua ebraica come il grande Mediatore, l’Interlocutore per eccellenza, Colui che prepara l’uomo affilandone le capacità nell’arsura del deserto, perché egli stia di fronte al divino e di fronte anche a se stesso, ai suoi veri limiti e al suo autentico potenziale.
È questa una sfida vera e propria, che Baharier accoglie e ripropone pienamente al lettore: abbandonare il Dio così terribile eppure così comodo e rassicurante dei castighi, delle statiche e posticce divisioni tra il bene e il male, dell’abdicazione dal pensiero, per lasciarsi incontrare da Colui che, senza poter essere nominato da profani, si presenta nella prima delle dieci parole simultaneamente nella dimensione del rigore e della creazione (Elo(h)ìm), nella dimensione della misericordia (Ado(n)ài) e infine in ciò che più lo accomuna con la sua creatura: Anokhì, «Io».
Anokhì è nel testo biblico tanto Mosè, quanto chi parla dalla Nube: «La mediazione divina va verso l’uomo e l’uomo va verso il divino. Solo se oscilla è Anokhì, filo a piombo perché pendolo che sfiora la rettitudine, non la perpendicolarità. Vana la pretesa di sottrarlo dal suo moto, di congelarne la comprensione. Se lo si ferma un passo più in qua, verso gli uomini: incombe l’idolo. Un passo più in là, verso Ado(n)ài: Mosè è Dio incarnato».