Yerushalayim Shel Zahav, intona sottovoce il cardinale africano Peter Turkson, nel suo ufficio a San Callisto nel cuore di Trastevere a Roma. «Gerusalemme d’oro, di bronzo e di luce… città che siedi solitaria e nel cui cuore si erge un muro». La voce profonda sembra seguire antiche litanie. È una canzone che il porporato, nato in Ghana nel 1948, già arcivescovo di Cape Coast ed oggi presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e per la pace, ha imparato 33 anni fa quando conobbe per la prima volta Gerusalemme e vi trascorse sette mesi come studente di ebraico, per perfezionare il suo curriculum accademico al Biblico di Roma. «Era il 1978 e la cantavano con grande emozione – ricorda Turkson -. Certo, il senso a cui si riferivano gli ebrei era quello della città divisa dalla guerra del 1948’». Le strofe della canzone erano state scritte nel 1967, poco prima che le truppe israeliane conquistassero la parte araba di Gerusalemme, e si ispiravano alla lettura ritmica tradizionale dei testi biblici.
«Tuttavia per me quelle parole avevano un significato più ampio, che tuttora simboleggia la condizione della città», ci spiega il cardinale. «L’aria che si respira a Gerusalemme è quella di una città contesa, non solo tra arabi e israeliani, ma tra le grandi religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo, islam e, persino, all’interno di ciascuna religione: basti pensare a quanto accade nel Santo Sepolcro, dove si scatenano a volte gelosie e contese tra cristiani latini e orientali».
«Detto ciò – prosegue – anziché sottolineare la vergogna di questa situazione, vorrei piuttosto vedere nei muri che dividono il cuore di Gerusalemme un invito e un monito: ci ricordano quanto noi uomini siamo fragili e abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio per cambiare e per costruire relazioni di pace».
Il cardinal Turkson guida dal 2009 uno dei dicasteri più «politici», della Curia romana; tuttavia, nell’intervista, preferisce non addentrarsi nel terreno delicato della crisi israelo-palestinese, quanto piuttosto parlare del suo rapporto di cristiano, di africano e di uomo di Chiesa con la terra di Gesù e dell’ebraismo.
Eminenza, cosa significa per i cristiani dell’Africa la Terra Santa?
Per i tanti cristiani africani che non possono e forse non potranno mai recarsi nei luoghi di Gesù, la Terra Santa, e soprattutto Gerusalemme, rimangono un simbolo, qualcosa di conosciuto attraverso le letture sacre, immaginato, sognato, talvolta percepito come un pezzo del regno dei Cieli più che di questo mondo. Ricordo ancora quando tornai a casa dopo i sette mesi trascorsi a Gerusalemme. Uno dei miei fedeli mi chiese: «Allora, lei è stato in quella Gerusalemme dove, dopo la morte, andremo tutti?».
Il fatto di crearsi una propria Gerusalemme «celeste» non è però una prerogativa degli africani, ma capita a tutti coloro che non vi sono mai stati. Direi che l’approccio dei fedeli africani alla Terra Santa non è differente da quello del resto dei cristiani. Le fonti della fede sono le stesse: la Bibbia, la tradizione della Chiesa
Ci sono molte difficoltà per i cristiani africani a recarsi in Terra Santa?
Sì, per loro è più problematico visitare in pellegrinaggio i luoghi di Gesù. Innanzitutto per ragioni economiche, e poi per questioni di visto. Fino a qualche tempo fa, era impensabile per i cristiani africani ottenere il permesso per recarsi in Terra Santa. Le autorità dei rispettivi Paesi temevano che il pellegrinaggio fosse un’occasione per immigrare illegalmente e bloccavano tutti, persino preti e suore. Ultimamente le cose sono leggermente migliorate. È divenuto possibile, per la Chiesa cattolica, organizzare pellegrinaggi da Paesi come il Ghana o la Nigeria. Esistono tuttavia ancora numerose restrizioni: il visto, ad esempio, è concesso solo a persone che abbiano compiuto i 40 anni, e inoltre i candidati pellegrini sono sottoposti a mille verifiche sulla sincerità delle loro intenzioni e della loro fede.
Pur tra molti ostacoli, in Terra Santa si cominciano però a vedere, con maggiore frequenza, cristiani africani. Conosco personalmente tanti pellegrini che vi sono stati, che hanno potuto ripercorrere i passi di Gesù. Per loro il viaggio è stato anche occasione di una rilettura dell’intera Bibbia, nei luoghi dell’Antico Testamento, oltre che del Nuovo.
Lei è uno studioso di ebraismo; che importanza ha per la Chiesa cattolica il rapporto con i fratelli dell’Antico Testamento?
Un’importanza enorme. Il cristianesimo è sbocciato dal giudaismo, il nuovo testamento dall’antico, Gesù è stato preceduto da Giovanni Battista. È un dato di fatto, non vi è nulla da cercare, da inventare. Non si può pensare al cristianesimo senza l’ebraismo. Non solo perché Gesù era ebreo e tutto è avvenuto nei luoghi della storia ebraica, ma perché il cristianesimo parla con il linguaggio di quella cultura. Prendiamo ad esempio la parabola del seminatore che lancia i suoi semi in parte sulla strada, in parte su un terreno roccioso, in parte tra le sterpaglie e, infine, in parte su una terra fertile. Essa è incomprensibile se tolta dal contesto ebraico. Se Gesù fosse vissuto in Ghana, o in qualche altro Paese dell’Africa, quella parabola non avrebbe avuto senso: in Africa, come in tante altre parti del mondo, si semina in modo diverso, si effettua una pre-selezione del terreno, scegliendo quello migliore, dove possono crescere solo piante sane e robuste. Il seminatore di cui parla Gesù non premia o esclude in anticipo ma lascia che i suoi semi crescano dove vogliono: perciò il Signore lo indica come il simbolo di un’offerta universale della parola di Dio e della salvezza. Sostituire la cultura ebraica di Gesù con un’altra sarebbe un’operazione impossibile: non si può comprendere Gesù, se si prescinde dal suo ebraismo. La partenza è da lì, dalla cultura ebraica, anche se poi il cristianesimo ha abbracciato tutti i popoli del mondo.
Parlando della sua esperienza personale, cosa rappresenta la Terra Santa?
Vi sono arrivato con gli studi sulla Bibbia alle spalle ed ogni pietra, ogni roccia mi è divenuta presto familiare. Quando mi ritrovo in quei luoghi, ogni paesaggio mi racconta una sua storia che riconduce alla persona e alla missione di Gesù. Mi sembra di conoscere Gerusalemme come pochi altri luoghi al mondo, certamente molto meglio di quanto non conosca oggi Roma dopo cinque anni di Curia!
Quale posto le è più caro in quelle terre?
Difficile dirlo perché ogni angolo è importante e ha un suo valore. In quanto cristiano, credo che si possa però indicarne tre: Betlemme, che celebra l’incarnazione di Gesù, figlio di Dio diventato uomo; il Calvario, che celebra il suo sacrificio; e il Santo Sepolcro, che celebra la sua risurrezione.
Che emozioni ha provato nel visitare il Santo Sepolcro?
Ho toccato e ho pregato. È un posto unico. Su questa terra, dopo la morte e risurrezione di Gesù, ci sono tantissime vie che ci portano alla sua presenza, ma alcuni luoghi sono più vicini a Lui. È vero che nell’Eucarestia riceviamo il Signore stesso, ma trovarsi a Gerusalemme e celebrare l’Eucaristia nel Santo Sepolcro è un’altra esperienza, perché tutto è avvenuto lì, proprio in quel luogo. È una sensazione che non si può rivivere altrove, un’illuminazione, un sentirsi in contatto con gli eventi che hanno fatto nascere la nostra fede. Per noi cristiani ciò è particolarmente importante. Il cristianesimo si distingue per la sua storicità: Gesù è venuto in mezzo a noi, Dio si è fatto carne. La fede è divenuta realtà ed è ciò che si respira nel Santo Sepolcro.
La prima volta che Lei visitò la Terra Santa fu nel 1978, quando nella Gerusalemme ebraica si cantava con commozione Yerushalayim Shel Zahav… A quando risale il suo ultimo viaggio?
Ho visitato Gerusalemme di recente, poco prima dell’estate. Ho avuto l’opportunità di conoscere e di parlare a lungo con i membri del Gran Rabbinato: è stato un incontro di presentazione ricco di prospettive.
In che senso?
Perché presto, in aggiunta all’incarico di Giustizia e Pace, dovrei prendere il posto del cardinale argentino Jorge Mejia (da tempo in pensione – ndr) alla guida della Commissione della Santa Sede per le relazioni religiose con l’ebraismo.