Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Nuovi kibbutz, il miglior mondo possibile

Elena Lea Bartolini De Angeli
4 ottobre 2011
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Il kibbutz e il moshav rappresentano in Israele il simbolo dell’idea collettivista e socialista con la quale i pionieri dell’attuale Stato hanno iniziato a bonificare e coltivare la Terra prima del 1948. Molto è stato scritto sull’epopea dei kibbutzim, le strutture di vita collettiva, e dei moshavim, i villaggi dove ogni famiglia vive nella propria abitazione mantenendo comunque rapporti sociali di tipo collettivista con tutti gli abitanti.

Queste strutture, che sono riuscite a far «fiorire» il deserto grazie all’alta tecnologia impiegata nell’agricoltura, negli anni Ottanta del secolo scorso hanno vissuto una tragica crisi che le ha viste prossime al tracollo economico, disastro fortunatamente evitato dall’intervento dello Stato alla fine degli anni Novanta, che ha permesso una faticosa riorganizzazione economica in un momento in cui molti – per motivi diversi – avevano preferito o dovuto lasciare tale forma di vita. Poi, nel 2008, è avvenuta un’interessante inversione di tendenza: il numero dei nuovi accolti nei kibbutzim e nei moshavim ha superato quello di coloro che invece li avevano lasciati e, da allora ad oggi, le candidature per venire a vivere in questi luoghi sono in continuo aumento superando ogni aspettativa. La privatizzazione di tali strutture se, da una parte, ha permesso la loro sopravvivenza e il loro ampliamento, dall’altra ha ripensato la visione comunitaria egualitaria che era alla loro base, mantenendo tuttavia in vita il fondamento sociale di alta qualità che le ha sempre contraddistinte.

Ora che gli aspetti ideologici si sono modificati, un numero crescente di israeliani vede nel nuovo kibbutz o moshav un posto in cui volentieri si trasferirebbe: o come membro a pieni diritto oppure come «vicino», residente negli ameni «allargamenti esterni», dove l’unico obbligo è quello di pagare una quota mensile per i servizi. Nonostante siano in costruzione migliaia di nuovi appartamenti per far fronte alle numerose richieste, ognuno è conteso da almeno dieci famiglie. La popolazione dei kibbutzim e dei moshavim è quindi in continua espansione e, in alcuni casi, è anche possibile acquistare «azioni» dell’insediamento per esserne membro a pieni diritti.

Queste strutture oggi si configurano pertanto a mezza strada fra il socialismo e il capitalismo, la gestione dei vari settori – da quelli produttivi ai servizi come quello alberghiero – si è molto specializzata e le decisioni vengono prese solo da chi è attivo al loro interno. Come sottolinea Aldo Baquis, corrispondente da Tel Aviv per il Bollettino della Comunità ebraica di Milano in un suo recente articolo, «la mitica Assemblea generale dei chaverim ( i “compagni”) non ha più voce in capitolo», in quanto ogni azienda si gestisce autonomamente rimborsando al kibbutz o al moshav l’uso del terreno, dell’acqua e della corrente elettrica. I guadagni invece vengono ancora oggi ripartiti secondo le necessità di ciascuno e, se è vero che il dirigente d’azienda percepisce più del dipendente, il divario – stabilito da ogni struttura residenziale – è accettabile e decisamente inferiore a quello del mercato israeliano. Inoltre la collettività continua a mantenere un profondo senso di solidarietà provvedendo ai disoccupati, agli infortunati, agli anziani e ai malati. Qualità di vita, servizi sociali, sistema educativo avanzato e molto altro: vivere in queste strutture oggi appare dunque come la scelta del miglior mondo possibile soprattutto per crescere le nuove generazioni.

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