In questo suo Islam e Occidente il gesuita Samir Khalil Samir offre un'analisi che poco si occupa di fattori economici e squisitamente politici, ma si concentra sull'assai più decisiva ricerca del Dna culturale degli interlocutori. L'autore non si nasconde le difficoltà insite nell'incontro tra i due universi, ma individua dei percorsi possibili e auspicabili.
Esiste un legame naturale e congenito tra islam e violenza? Quali conseguenze implica permettere in Occidente ai musulmani, in nome della tolleranza e della laicità, di professare liberamente la loro religione? Può un musulmano immigrato in Europa essere giudicato secondo la sharia? Come viene trattata la donna nell’islam? I flussi migratori vanno visti in relazione ad un tentativo cosciente di islamizzazione dell’Europa? Rispetto a queste e ad altre domande, assai stringenti tanto per il politico, quanto per il religioso o l’intellettuale e, soprattutto, per l’uomo della strada che nella quotidianità si imbatte sia nei musulmani in carne ed ossa, sia in ciò che i media ne dicono, Samir Khalil Samir offre una bibliografia personale significativa per numero e qualità di articoli e monografie (si ricordi, per esempio, Cento domande sull’islam. Intervista a Samir Khalil Samir, a cura di Giorgio Paolucci e Camille Eid, del 2002).
In questo suo Islam e Occidente si riflette un’analisi che poco si occupa di fattori economici e squisitamente politici, perché viene giudicata evidentemente assai più decisiva la ricerca del Dna culturale degli interlocutori. Il gesuita copto, fondatore e direttore del Centro di documentazione e di ricerche arabe cristiane (Cedrac), ripercorre in lungo e in largo il Corano e le altre fonti della sharia, vista sia alle sue origini sia nelle sue successive, diverse applicazioni, spiegando perché gli esponenti storici dell’islamismo più radicale di ieri e di oggi, dei quali peraltro si presenta sinteticamente l’impianto di pensiero, non rappresentino l’eccezione, ma la regola di un quadro invero poco incoraggiante per quanti vagheggiano un’integrazione «facile» tra civiltà diverse.
È già alle radici, infatti, che l’islam ha legato inscindibilmente politica e religione rendendosi immune ab ovo ai principi della laicità; è già nella successione cronologica della rivelazione coranica che le Sure più aggressive verso gli infedeli sparsi per il mondo (nelle «terre della guerra») abrogano quelle più antiche e concilianti, specie in rapporto alle «genti del libro», ed è infine per come viene intesa la rivelazione delle scritture – in modo immediato e letterale da Allah al suo Profeta – che si rende difficilmente percorribile qualsiasi tentativo di interpretare il libro sacro secondo criteri moderni, e dunque anche politicamente «utili».
Eppure dalle pagine di Samir Khalil Samir non emerge il canto di una cassandra rassegnata all’inevitabile scontro tra due mondi opposti e inconciliabili: la strada per una convivenza non sanguinosa, così necessaria in un mondo globalizzato, seppur complicata da percorrere nei fatti, è già ben tracciata nella storia. L’Occidente deve essere più se stesso. Deve difendere le sue radici cristiane, perché da quelle trae l’universalità dei suoi valori; deve difendere anche il suo trascorso illuminista, grazie al quale ha imparato in profondità a discernere ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Viceversa l’islam deve essere un po’ meno se stesso. Può condividere il suo grande patrimonio etico e spirituale aiutando l’Occidente secolarizzato a «ritrovarsi», ma poiché ancora attende la «sua» rivoluzione francese, deve accettare, tanto più laddove emigra, ciò che i Paesi più «evoluti» sono disposti (o dovrebbero essere disposti) a concedere alla fede, a qualunque fede: in buona sostanza, che le peculiarità di ogni credo trovano la loro dimensione naturale e dunque più produttiva entro e non oltre la sfera del diritto privato.