È toccato anche alla radio pacifista che parla in arabo e in ebraico. L’offensiva «legale» della destra israeliana contro tutto ciò che sa di sinistrorso ha colpito anche lei: da giovedì Allforpeace ha dovuto sospendere le trasmissioni. Trasmetteva da sette anni Allforpeace, uno dei mille volti di quei settori della società israeliana e palestinese che provano a gettare ponti. Si comincia impedendo all’altro di parlare, ma si fa presto ad arrivare molto più lontano...
È toccato anche alla radio pacifista che parla in arabo e in ebraico. L’offensiva «legale» della destra israeliana contro tutto ciò che sa di «leftist» (sinistrorso – ndr) ha colpito anche lei: da giovedì Allforpeace ha dovuto sospendere le trasmissioni. Dopo che al suo direttore Mossi Raz, israeliano, ex leader di Peace Now e parlamentare di Meretz, era stato ingiunto di farlo, pena il sequestro di tutta l’attrezzatura. Così per il momento l’emittente ha ubbidito, salvo presentare subito ricorso alla Corte Suprema israeliana.
Trasmetteva da sette anni Allforpeace, uno dei mille volti di quei settori della società israeliana e palestinese che provano a gettare ponti, perlomeno per parlarsi. Iniziativa nata con il sostegno dei soliti sediziosi: l’Unione Europea, UsAid, il ministero degli Esteri tedesco, l’ambasciata di Norvegia in Israele, la Fondazione Anna Frank, oltre a Givat Haviva, il centro di formazione dell’Hashomer HaTzair, storico movimento giovanile della sinistra israeliana. Era nata – è vero – sul filo del rasoio, perché registrata a Ramallah con una licenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da là – però – si può benissimo trasmettere anche in Israele e magarli farlo anche parlando in ebraico. Per lo stesso motivo per cui da Israele si trasmette in farsi, la lingua parlata in Iran.
Non è certo una radio da ascolti record Allforpeace: perché non ne ha i mezzi, ma soprattutto perché le cose che racconta sono spesso scomode da ascoltare per l’israeliano medio, che preferisce chiudere gli occhi su chi sta dall’altra parte. Molto meglio parlare ciascuno la propria lingua e non provare ad ascoltarsi. Però almeno il segno c’era. Avevo sentito parlare parecchio di questa esperienza e del suo direttore Mossi Raz, finché ho avuto modo di conoscerlo di persona qualche settimana fa a Torino, quando è intervenuto al convegno Il mistero di Gerusalemme, organizzato da Ponte di pace onlus. Il classico israeliano di sinistra, molto aperto nei confronti delle tesi palestinesi, ma nient’affatto «disfattista» rispetto al suo Paese.
Ma il punto è che sono proprio questo tipo di persone e di iniziative oggi in Israele le più intollerabili. Gente che non accetta il muro – psicologico più ancora che fisico – tra «noi» e «loro». Così – come racconta l’articolo del blog + 972 – Allforpeace è stata fatta chiudere. Con una tesi che dà l’idea di quali siano i rapporti di forza in Medio Oriente: non è ammissibile – hanno detto a Mossi Raz – che una radio palestinese trasmetta in ebraico. Danny Danon – un parlamentare molto in vista del Likud – domenica commentava su Facebook questa notizia dicendo che «la settimana comincia bene». La speranza è che la Corte Suprema israeliana gliela faccia andare al più presto un po’ meno bene. E gli ricordi che in quella che ama proclamarsi l’«unica democrazia del Medio Oriente» la libertà di espressione dovrebbe essere un valore.
Dal mio punto di vista – invece – quella di radio Allforpeace non è l’unica notizia preoccupante che mi ha rovinato l’inizio di settimana. Su Haaretz ne ho visto un’altra che mi ha fatto letteralmente rabbrividire: c’è un gruppo di giovani che gira per gli esercizi commerciali e le piccole imprese di Gerusalemme Ovest conducendo un censimento un po’ particolare. Indagano su chi impieghi personale arabo e chi no. Vogliono realizzare una «guida» in modo che il consumatore ebreo sia «libero» di boicottare chi si serve di manodopera araba. La polizia ne ha fermato uno e – guarda caso – è risultato essere un nipote di Meir Kahane: l’ideologo della destra xenofoba ebraica. Solo che pare ce ne siano anche altri diciannove di questi «rilevatori» in circolazione a Gerusalemme.
Si comincia impedendo all’altro di parlare. Ma si fa presto ad arrivare molto più lontano.
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