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Ripartire dall’economia per capire le rivoluzioni

Manuela Borraccino
21 marzo 2012
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Poche tasse, elevata propensione alla spesa pubblica, massicci investimenti nella Difesa e nella sicurezza, instabilità cronica: non a caso le rivoluzioni arabe affondano le radici anche in quelle caratteristiche tipiche della «maledizione del petrolio» che affligge diversi Paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Gli economisti Rony Hamaui e Luigi Ruggerone partono dai fondamentali dell’economia per spiegare la Primavera araba nel loro saggio Il Mediterraneo degli altri.


Poche tasse, alta propensione alla spesa pubblica, forti investimenti nella Difesa e nella sicurezza, instabilità cronica: non è un caso che le rivoluzioni arabe affondino le radici anche in quelle caratteristiche tipiche della «maledizione del petrolio» che affligge diversi Paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Gli economisti Rony Hamaui e Luigi Ruggerone partono dai fondamentali dell’economia per tentare di spiegare la Primavera araba.

Entrambi alti dirigenti di Intesa Sanpaolo e docenti a contratto, rispettivamente di Economia monetaria e di Economia dei Paesi emergenti, all’Università cattolica del Sacro Cuore, gli autori de “Il Mediterraneo degli altri” prendono le mosse dall’analisi dei principali indicatori di sviluppo dei Paesi protagonisti delle rivoluzioni del 2011. E mettono a confronto i progressi che i Paesi del Medio Oriente e Nord Africa hanno raggiunto negli ultimi decenni in tema di mortalità infantile, scolarizzazione, aspettativa di vita con l’enorme crescita demografica dell’area (che non ha eguali in nessun’altra parte del mondo) e con il mancato aumento del Pil reale pro-capite che resta meno della metà di quello osservato nei Paesi emergenti dell’America latina e del resto dell’Africa e poco più di un decimo di quello dei Paesi asiatici. A che cosa è dovuta questa arretratezza e perché proprio lo scorso anno sono scoppiate le rivolte che hanno rovesciato Ben Ali, Mubarak, Gheddafi?

Vari esperti hanno indicato nell’abbondanza di risorse energetiche una delle ragioni principali della mancanza di democrazia, e di vivaci società civili, nella maggior parte dei Paesi che le possiedono, in particolare nelle monarchie del Golfo, dove il reddito pro-capite (come nel caso del Qatar) può superare i 100 mila dollari l’anno: infatti con poche tasse i cittadini sono meno stimolati a pretendere un governo rappresentativo; la spesa pubblica, dispersa in sovvenzioni e sussidi, organizza il consenso sociale e spegne le istanze democratiche; infine la grande quantità di risorse spesa nella sicurezza viene in parte impiegata anche per reprimere i conflitti etnici e regionali interni.

Ma Hamaui e Ruggerone vanno oltre l’analisi del cosiddetto «Stato usuraio» basato su poche tasse e molti sussidi. Tra le pagine più interessanti del libro si trovano quelle che tentano di capire se l’Islam abbia costituito e tuttora rappresenti un ostacolo non solo alla democrazia, ma anche allo sviluppo economico, e quelle che indicano nella frammentazione etnica, linguistica, culturale e religiosa un impedimento alla crescita e alla creazione di istituzioni efficienti proprio per l’indebolimento di quel patto sociale (come si vede con le nutrite minoranze non musulmane in Libano, Siria, Egitto) che sta alla base di qualsiasi Paese ricco e libero e che si basa su distribuzione del reddito e offerta di servizi pubblici. Lungi dal dare risposte semplicistiche, gli autori rendono ragione della complessità e delle articolazioni del dibattito che si è sviluppato negli ultimi decenni su questi temi.

Ne esce un quadro di notevole interesse, condotto con grande rigore scientifico e fruibile anche dai non addetti ai lavori, sul nesso fra gli indicatori socioeconomici noti da anni agli esperti dell’area e le richieste di fine della povertà, giustizia sociale e buon governo che si sono levate dalle piazze. Nella certezza, chiosano gli autori, che solo rilanciando la cooperazione mediterranea inaugurata dal processo di Barcellona nel 1995 e mai realmente perseguita dall’Unione Europea le rivolte potranno costituire un’opportunità di rifondare un rapporto che non ha mai realmente portato agli obiettivi di sviluppo economico e sociale che pure molti governi dell’area euro-mediterranea si erano posti.

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