Sono giornate difficili per chi come noi crede nel dialogo e nell'amicizia tra chi professa religioni diverse. La drammatica vicenda di Tolosa, con l'uccisione di un adulto e di tre bambini ebrei soltanto perché ebrei, non può infatti lasciare indifferenti. Ma è proprio in questi momenti che è più importante ricordare che questo non è l'unico volto del mondo d’oggi...
Sono giornate difficili per chi come noi crede nel dialogo e nell’amicizia tra chi professa religioni diverse. La drammatica vicenda di Tolosa, con l’uccisione di un adulto e di tre bambini ebrei soltanto perché ebrei, non può infatti lasciare indifferenti. Ma è proprio in questi momenti che è più importante ricordare che questo non è l’unico volto del mondo d’oggi. E che la categoria a me particolarmente cara dei Giusti dell’Islam può diventare l’antidoto migliore rispetto a certe generalizzazioni che non sono poi così lontane dai meccanismi psicologici che portano alla violenza.
Così ieri ho accolto con un vero e proprio sussulto un’immagine che ho trovato in un articolo di Aziz Abu Sarah, un musulmano che fa la spola tra Gerusalemme e gli Stati Uniti, e a cui già altre volte in questa rubrica abbiamo ceduto la parola. Aziz ha scritto un altro articolo molto bello su un tema caldo: la possibilità di un incontro tra musulmani e cristiani nell’Egitto di oggi. Ma più che sulle sue parole, questa volta voglio soffermarmi su una fotografia che lui commenta. Uno scatto che parla molto più di mille discorsi. L’ha presa dal profilo Facebook di Kolena Khalid Sa’id, uno dei tanti gruppi che si rifanno alla rivoluzione di piazza Tahrir. Ed è un’istantanea di queste giornate che hanno visto al Cairo centinaia di migliaia di copti rendere omaggio al loro papa Shenuda III, scomparso dopo oltre 40 anni trascorsi alla guida di questa antichissima Chiesa orientale. La coda per entrare nella cattedrale di San Marco era lunga e nella capitale egiziana il sole picchiava. Così da un palazzo che si affaccia sulla strada una donna vestita di bianco, velata, certamente musulmana, ha preso un secchio e ha cominciato a calare dell’acqua per dare un po’ di sollievo nell’attesa. È l’istante catturato dalla fotografia. Ma il sito – rilanciato da Aziz – ci dice anche un’altra cosa: che non l’ha fatto una volta sola, ma che è andata avanti per ore in quel suo gesto.
A me sembra un esempio straordinario di quel dialogo della vita, a partire dal riconoscimento di un’umanità che ci accomuna tutti, che è la strada più feconda nel dialogo tra gli uomini e le donne delle diverse religioni. Un incontro fatto di gesti concreti, più che di parole. E infinitamente più diffuso di quanto si racconti. Proprio in questi giorni al Cairo lo si è visto bene: la donna che calava il suo secchio d’acqua non è stato un fatto isolato. Pur tra tutte le difficoltà che conosciamo (e che nessuno vuole negare) ci sono stati moltissimi musulmani che si sono resi vicini ai copti in questo momento di dolore. L’esperienza umana per eccellenza – il pianto per la morte di una persona cara – è diventata un’occasione di dialogo anche a livello pubblico nell’Egitto di oggi: alle esequie di Shenuda III, ad esempio, erano presenti tutti i candidati più accreditati per le elezioni presidenziali che si terranno a fine maggio. Certo, questo non cancella d’incanto le violenze e tutti i problemi che i copti in questi mesi hanno denunciato. Ma indica comunque una strada, quella appunto del riconoscimento che le religioni parlano innanzi tutto della dignità di ogni uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio.
Ed è esattamente questa anche la strada che per anni ha indicato Abdessalam Najjar, un amico musulmano che ci ha lasciato ieri. Abdessalam è stato uno degli iniziatori – insieme al padre domenicano Bruno Hussar -, di Nevé Shalom/Wahat as Salam, il villaggio sulla collina a pochi chilometri dall’abbazia di Latrun (sulla strada che da Tel Aviv porta a Gerusalemme) dove arabi ed ebrei provano a vivere insieme in una condizione di parità. Il sogno dell’«oasi di pace» – di cui parla il nome – da ormai quasi quarant’anni è una delle realtà più conosciute tra i cantieri di riconciliazione in Terra Santa, grazie anche all’opera di Abdessalam, che di Nevé Shalom/Wahat as Salam è stato a lungo sindaco. In tanti anni l’ho incontrato appena tre volte, ma devo dire che è stata una delle persone da cui ho imparato di più sul conflitto e sui modi di affrontarlo. Ricordo molto bene il primo incontro, negli anni più duri della seconda intifada. Arrivai all’«oasi di pace» il giorno dopo un episodio terribile: una donna palestinese, una madre di due bambini, si era fatta saltare in aria in un attentato suicida. Arrivai con una domanda provocatoria: si può starsene sulla collina quando sotto succedono fatti come questo? Con pazienza Abdessalam mi aiutò a capire. Mi spiegò come Nevé Shalom/Wahat as Salam non fosse affatto un luogo dove il conflitto veniva rimosso. Mi raccontò tante storie concrete su come le contraddizioni venissero fuori anche lì. La differenza – mi disse – è che qui, facendo tanta fatica, con tutto questo proviamo davvero a fare i conti insieme.
In questa sfida per Abdessalam anche la religione aveva un ruolo fondamentale. Negli ultimi anni si è dedicato soprattutto al centro per il dialogo interreligioso sorto nel villaggio. Citava spesso la parentela semantica tra la parola araba sakinah – la pace del cuore che viene da Dio – con shekinah, il termine ebraico che parla della presenza di Dio nel mondo. Ed è proprio questo modo di guardare a legami che sono più profondi rispetto alle divisioni tra gli uomini, l’eredità più preziosa che questo grande uomo ci lascia.
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