Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Tutti i sapori delle feste

Elena Lea Bartolini De Angeli
27 marzo 2012
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Nell’orizzonte della kasherut, l’insieme delle norme alimentari ebraiche, i cibi tipici per ogni festa costituiscono un elemento importante della liturgia domestica che, nell’ebraismo, è più importante rispetto a quella sinagogale. Alcuni cibi hanno un preciso valore rituale: ad esempio il vino, sul quale, all’inizio di ogni festa, viene benedetto il Nome di Dio per «consacrare» il momento celebrativo; oppure le Challot, i due pani intrecciati per lo Shabbat, che ricordano la raccolta doppia della manna per osservare il riposo settimanale e rimandano alle due «Tavole del patto»; lo stesso vale per il pane azzimo e le erbe amare che, durante la cena pasquale, assieme al «racconto rituale» costituiscono il «memoriale» attraverso il quale ogni generazione può di nuovo «uscire dall’Egitto». Si tratta quindi di cibi specifici senza i quali non è possibile celebrare la festa. Ma anche tutte le altre ricette tradizionali, nelle numerose varianti legate ai diversi Pae-si nei quali le comunità ebraiche vivono, fanno parte del rituale festivo e sono, per così dire, irrinunciabili. Tra queste le ricette a base di latte e latticini per Shavu‘ot che, 49 giorni dopo Pesach, la Pasqua, ricorda il dono della Torah al Sinai e, di conseguenza, la sua accettazione da parte del popolo di Israele che, per mettere subito in pratica i precetti ricevuti, ha consumato i latticini che non richiedono preparazioni rituali di più giorni; tale cibo ha inoltre una forte connotazione simbolica: la tradizione insegna che lo studio della Torah ha il sapore del «latte e del miele», mentre il popolo di Israele «nato da poco» ha bisogno del latte come un agnellino. Ci sono poi le pietanze a base di frutta e verdura che si consumano a Sukkot, la festa della Capanne, per ricordare il periodo trascorso nel deserto prima dell’arrivo nella Terra promessa; sono pietanze che si condividono nella Sukkah, la «capanna» costruita in giardino o in terrazza, nella quale – se il clima lo permette – si trascorre anche la notte, in modo da sperimentare la precarietà del nomadismo che è paradigma della precarietà della vita. Cariche di valore simbolico sono anche le ricette per Rosh haShanah, il capodanno religioso, durante il quale si benedice Dio mangiando una serie di cibi benaugurali tra i quali la Challah del Sabato intinta nel miele che, per l’occasione, viene preparata di forma rotonda anziché intrecciata, affinché il nuovo anno sia privo di «spigoli» di ogni genere. Lo stesso vale per i dolci di Purim, che ricordano le «orecchie» del perfido Amman, il cui tentativo di sterminio del popolo ebraico viene sventato dal coraggio della regina Ester, e per le frittelle di Chanukkah che richiamano il «miracolo dell’olio» durante la riconsacrazione del Tempio dopo la rivolta dei Maccabei. E gli esempi potrebbero continuare.

I valori soggiacenti al cibo di ogni festa, da una parte rimandano al significato «memoriale» di ogni celebrazione e alla simbologia collegabile, dall’altra sottolineano l’importanza della dimensione conviviale che, rimandando alla sacralità di ogni pasto, si esprime in maniera significativa in quello festivo, dove il cibo assume un valore rituale e contribuisce a far «gustare» il momento celebrativo nel segno della condivisione perché, come ricorda la tradizione, da quando non c’è più il Tempio è il «tavolo» ad espiare i peccati, in quanto luogo di convivialità che dovrebbe sempre essere aperta a tutti (cfr Talmud Babilonese, Chaghigah 27a).

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