Un secolo è passato dal naufragio del Titanic, la gigantesca nave che si inabissò carica di viaggiatori, dopo la collisione con un iceberg, nel 1912. Mentre si moltiplicano le celebrazioni commemorative c'è chi ricorda i passeggeri arabi, stipati in terza classe della nave con i migranti italiani e irlandesi, diretti in Nord America per fare fortuna.
(Milano/c.g.) – Un secolo è passato dal naufragio del Titanic, la gigantesca nave passeggeri che si inabissò carica di viaggiatori, dopo la collisione con un iceberg, nel 1912 al largo delle coste nordamericane. La tragedia del Titanic, avvenuta durante il viaggio inaugurale sulla rotta dall’Inghilterra a New York, ha suscitato in questi cento anni, in Occidente, una vera e propria produzione epica: al Titanic sono state dedicate canzoni, romanzi, film di successo.
E in questi giorni si moltiplicano le celebrazioni di commemorazione. Quello che pochi sanno, però, è che non si trattò di una tragedia solo occidentale: sul Titanic viaggiava anche un certo numero di passeggeri arabi, stipati nella terza classe della nave assieme a molti migranti italiani e irlandesi, tutti diretti in Nord America per fare fortuna. La testata digitale degli Emirati Al Arabiya ha il merito di ricostruire, in questi giorni, la storia di alcuni di questi viaggiatori mediorientali imbarcati sul Titanic, rievocandone le vicende personali.
La maggior parte di loro, racconta il quotidiano, erano libanesi; mentre uno era egiziano. Non c’è da sorprendersi poiché all’inizio del secolo scorso la diaspora libanese verso le Americhe è già una consuetudine: sul lungomare di Beirut, oggi, si può ammirare una statua dedicata al «patriarca di tutti i migranti», il primo libanese di cui si abbia una registrazione ufficiale; sguardo fiero rivolto alla linea dell’orizzonte, pantaloni con lo sbuffo all’ottomana, fez a coronare il viso. Il monumento rappresenta un coraggioso partito nel lontano 1891 per il Messico ed emulato, nei centovent’anni successivi, da infiniti altri connazionali.
I libanesi dei Titanic andavano invece negli Stati Uniti e provenivano in gran parte da due villaggi: ben 13 vittime erano originarie di Kafr Mishki, nel distretto di Rashaya, a sud est di Beirut. Oggi il villaggio conta circa 500 abitanti ma nel corso degli anni oltre 11 mila suoi figli sono partiti per trovare fortuna nei cinque continenti.
«Solo ad Ottawa, in Canada, ci sono 6 mila libanesi originari del nostro villaggio», racconta il sindaco, Khalil al-Sikli. Dal villaggio di Hardine, nel distretto di Batroun (Libano settentrionale), provenivano altre 11 vittime del naufragio; nessuno di loro aveva più di 25 anni e sei erano sposati.
«Quando la nave iniziò ad affondare, i nostri concittadini si strinsero insieme e si misero a recitare versi improvvisati, un lamento sulla loro sorte, come si usa fare nella nostra poesia popolare», racconta il sindaco di Hardine, Bakhous Sarkis Assaf, secondo una legenda che si è tramandata di generazione in generazione, nel villaggio. Sia nella parrocchia di Kafr Mishki, sia in quella di Hardine, domenica prossima – giorno anniversario del naufragio – verrà celebrata una messa di suffragio per le vittime.
Anche la scrittrice siro-americana Laila Salloum Elias, autrice del libro dal titolo Il sogno e poi l’incubo, ha ricostruito la vicenda di diversi passeggeri arabi. La Elias ha trovato molte informazioni su al-Hoda, un giornale arabo pubblicato a New York negli anni del naufragio. Secondo la scrittrice diversi passeggeri libanesi vennero uccisi con arma da fuoco poiché si rifiutarono di obbedire agli ordini dati dai membri dell’equipaggio. Uno, in particolare, venne ucciso per aver cercato di indossare un giubbotto di salvataggio, prerogativa dei viaggiatori di prima classe.