Sono stato invitato di recente alla Casa circondariale di Monza, alle porte di Milano, per parlare ai detenuti della «Primavera araba». Il pubblico, in gran parte arabo, ma con una buona rappresentanza sudamericana, si è dimostrato appassionato e desideroso di dire la propria sin dalle prime battute. Alla fine del dibattito, ho chiesto ai detenuti originari dei Paesi toccati dalle rivolte come avessero vissuto «a distanza» quegli eventi.
Gamal, che sconta una pena di 5 anni, ha detto di essere stato felicissimo di vedere l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak dietro alle sbarre. Esattamente come lui. Liamine si è detto soddisfatto per l’esito della rivolta in Tunisia, ma afflitto per le vittime cadute nel riconquistare la libertà. È stato commovente sentire i carcerati menzionare la parola «libertà». L’intera vicenda mi ha dato comunque motivo per interrogarmi su quanti, fuori dal carcere, vivono invece «prigionieri» dei propri schemi mentali. Coloro i quali hanno l’ossessione d’imporre le regole del «buon islam» nei Paesi arabi fanno parte di questa categoria. La cronaca ci offre spesso, purtroppo, esempi lampanti.
Lo scorso 3 maggio, si è concluso a Tunisi (per fortuna con solo un’ammenda di 2.400 dinari, poco più di 1.200 euro) il processo contro Nabil Karoui, il direttore di Nessma Tv, reo di avere mandato in onda il film d’animazione Persepolis, ritenuto blasfemo e un attentato ai «buoni costumi» tunisini. Il gruppo di 140 avvocati che aveva denunciato Kraoui, lo ritenevano passibile della pena di morte per avere «attentato ai costumi e ai valori del sacro», per la messa in onda del film in cui viene ritratto, sia pure per pochi istanti, Allah con fattezze umane: cosa vietata tassativamente dall’Islam.
Un’altra stravaganza arriva invece dal Kuwait, anche se la notizia non ha avuto la stessa risonanza internazionale della richiesta di vietare la costruzione di chiese nel Paese, confermata da una fatwa del Gran mufti saudita. La stravaganza a cui mi riferisco consiste nell’intenzione di alcuni deputati salafiti di presentare in Parlamento un bando dei nomi che non sono considerati islamically correct.
Ho cercato di appurare tramite Internet quali fossero questi pericolosi «nomi vietati o aborriti dalla sharia islamica», per arrivare alla conclusione che una buona percentuale di kuwaitiani dovrà cambiare nome in caso di approvazione di una simile proposta. Si parte dagli attributi di Dio, i cosiddetti 99 bellissimi nomi, e fin qua ci siamo. Poi si passa agli angeli (immaginate se togliessimo via tutti i Gabriele, Michele, Raffaele, Angela ecc. dall’Occidente!). Poi ai nomi che mettono in risalto la bellezza e la grazia della donna, di cui la lingua araba è piena: Ahlam, Abir, Ghada, Faten, Nohad, Wisal, Shadia, ecc. Per arrivare ai «nomi stranieri propri degli infedeli, da cui un buon musulmano si distoglierebbe subito, ma che sono oggetto di immenso scandalo oggigiorno, con il diffuso pescare tra i nomi degli infedeli in Europa e in America». I nomi in oggetto sono Peter, George, Diana, Rose, Suzanne, ecc. «Questa imitazione dei miscredenti – si legge nel testo – se fatta per distrazione, costituisce grave peccato, ma se commessa con la convinzione della superiorità di quei nomi su quelli islamici allora si tratta di un immenso pericolo che scuote il fondamento della fede. In ambo i casi, ci si deve pentire, e la condizione del pentimento è rinunciarvi».
Incredibile a dirsi: la fede messa in pericolo da un nome!