Siamo soliti rimproverare alla Turchia la negazione del genocidio armeno. Nella ricerca della pace tra le comunità, tuttavia, è comunque bene sottolineare i tentativi di rivisitare la storia in un Paese in cui, ancora di recente, chi metteva in dubbio la versione di Stato sulla «questione armena» veniva punito.
Nel settembre del 2005, per esempio, il patriarca armeno di Istanbul fu invitato da un gruppo di docenti universitari a partecipare a un dibattito sugli armeni ottomani, sfidando le forti reticenze dello Stato e dei media con il loro proposito di mettere in discussione tutte le fonti storiche. Una giovane avvocatessa, avendo saputo dalla nonna di avere origini armene, non solo si commosse fino alle lacrime ma decise di scrivere quello che divenne poi Heranush, mia nonna (di Fethiye Çetin, stampato in italiano da Alet Edizioni nel 2007 – ndr). Pubblicato in turco, il libro sconvolse l’opinione pubblica. Poco a poco le lingue si sciolsero e si cominciarono a fare ricerche: emerse che questo caso (la vicenda di una ragazza armena «adottata» da un capitano dell’esercito turco e fattasi musulmana per sfuggire al massacro – ndr) era ben lungi dall’essere unico. Poco dopo, il romanzo di Elif Shafak La bastarda di Istanbul fece scalpore. Nell’ultima pagina dell’edizione francese (ma anche di quella italiana, pubblicata da Rizzoli nel 2007 – ndr), a proposito dell’edizione turca l’autrice scrive: «Ho subìto in Turchia un processo per aver “denigrato l’identità nazionale turca”, in base all’articolo 301 del Codice penale. (…) Avrebbero potuto condannarmi a tre anni di reclusione, ma il processo si è concluso con l’assoluzione». Del pari, Orhan Pamuck fu accusato dello stesso crimine quando ricevette il premio Nobel alla fine del 2006. Ma in questo caso la faccenda non andò oltre, tanto più che lo scrittore ricevette pubblicamente i complimenti del capo dello Stato per la sua consacrazione letteraria!
Nel gennaio del 2007, il grande giornalista armeno Hrant Dink fu ucciso da un gruppo di ultranazionalisti. I funerali furono seguiti da centinaia di migliaia di persone (da 100 a 200 mila), quando gli armeni di Turchia, da soli, sono ben lontani da raggiungere tali numeri. Appena ne fu annunciata la morte, alcuni manifestanti si misero a gridare per le strade del centro di Istanbul: «Siamo tutti armeni!». Per molti fu uno shock.
Nel settembre 2008 un gruppo di intellettuali turchi lanciava su Internet il seguente appello al perdono: «La mia coscienza non può accettare che restiamo indifferenti alla Grande Catastrofe che gli armeni ottomani hanno subito nel 1915, e che la si possa negare. Rifiuto quest’ingiustizia e, per quanto mi riguarda, condivido i sentimenti e le pene dei miei fratelli e sorelle armeni, e chiedo loro perdono» (cfr Cengiz Aktar, L’appel au pardon, Cnrs Editions, Parigi 2010). La petizione raccolse più di 30 mila firme, prima che il sito fosse bloccato.
Una pedagogia dell’incontro sembra ormai necessaria. La scelta dei termini è importante. Se il termine «genocidio» prima o poi dovrà essere accettato dai turchi, in un primo tempo è forse più urgente che arrivino a riconoscere quanto è accaduto. Bisognerebbe poi anche «purificare» le motivazioni di coloro che non pensano ad altro se non a distruggere la Turchia, o le ragioni di quegli Stati che affermano di voler difendere i diritti dell’uomo, quando in realtà inseguono i voti della diaspora armena.
Non si può costruire qualcosa di solido su meri calcoli elettorali, e nemmeno se spinti dalla sola sete di vendetta. Ricordando a Istanbul il dramma della sua famiglia, ma anche delle «leggi sulla memoria» in preparazione in Francia e negli Stati Uniti, un sacerdote armeno mi diceva, quasi in lacrime: «Non è sull’odio che si costruisce il futuro».
(traduzione di Roberto Orlandi)