Non c’è nulla di più disumano che impedire a qualcuno di esprimere sentimenti… umani. Ridere, piangere, cantare, lamentarsi. Lo stereotipo del musulmano dal volto truce cozza contro la straboccante umanità di molti villaggi e metropoli del Medio Oriente o del Nordafrica. Eppure si assiste qua e là al ritorno di un rigorismo che suggerisce nuovamente l’idea di un’intera civiltà incapace di leggerezza e d’ironia. Se l’interpretazione wahhabita vieta di esprimere il dolore per la morte di un caro in quanto rappresenta una «ribellione» alla volontà divina, altri esempi propongono l’altra faccia della medaglia vietando l’espressione della gioia. Così l’orrendo massacro avvenuto alla fine di agosto in Afghanistan (15 uomini e 2 donne decapitati nella provincia meridionale di Helmand per una festa mista con musica e balli) che riporta diritto il Paese asiatico agli anni del repressivo regime dei talebani, che aveva chiuso le frontiere a musica e film. E dire che a Kabul era nato, due anni fa, un Istituto nazionale di musica che raccoglie oggi decine di studenti fin dalla tenera età di 8 anni. Due i settori di specializzazione nell’istituto in cui insegna anche un gruppo di cinque professori stranieri: la musica afghana (con lo studio di strumenti tradizionali come il sarod e il sitar) e la classica occidentale. «La musica – dice il preside Daud Moshin – cambia l’atteggiamento di questi ragazzi in modo positivo, dalla guerra alla cultura».
Un obiettivo non facile in un Paese che fatica a uscire dalla cappa ideologica dei talebani. Nel 2008, ha suscitato sgomento l’approvazione, da parte della commissione parlamentare Affari morali, di un disegno di legge che rispolverava la netta divisione tra i sessi in feste e incontri pubblici. La legge vietava anche agli uomini di indossare t-shirt e jeans, e alle donne di truccarsi, mostrare i capelli, ballare in pubblico e vestire abiti «poco accettabili». La legge non è passata, ma il solo fatto che sia stata formalmente proposta era indicativo del clima che si respirava – e che si respira ancora – nel Paese, dove i politici fanno a gara per mostrarsi integerrimi difensori della morale pubblica e della religione islamica. Approvato, invece, il bando alle seguitissime soap opera indiane, colpevoli di «deviare donne e giovani». Motivo: i sari delle attrici che lasciano scoperti i fianchi, i ragazzi e le ragazze che escono assieme, e i frequenti riferimenti alla religione induista.
La stessa sobrietà si respira anche nel Nord del Mali, dove da sei mesi regna l’ordine salafita. Vietati tivù, musica occidentale e calcio, considerati illeciti dai fondamentalisti. I matrimoni, che tradizionalmente duravano diversi giorni, con canti e balli all’aperto, durano ora lo spazio di un’oretta. Nessuno degli invitati si sogna più di portare strumenti musicali o di ballare il takamba, il tradizionale ballo dei songhai. Matrimoni che somigliano più a dei funerali. Un novello sposo ha raccontato di aver raccomandato ai suoi ospiti di non fumare e di non stare vicino a persone del sesso opposto per evitare che i fondamentalisti facessero sgomberare tutti. Controllati a vista da uomini armati, neanche una battuta di spirito ti può togliere d’impaccio, come poteva avvenire nel Medioevo arabo. Si legge infatti che un uomo fu impedito di presentare la sua testimonianza al tribunale islamico perché «era stato notato a una festa in cui cantava una donna». «E hai pure fatto i complimenti alla cantante», aggiunse il giudice. «Li ho fatti quando ha iniziato o quando ha finito di cantare?», chiese l’uomo. «Quando ha finito». «Infatti, mi complimentavo per il suo silenzio, signor giudice».