Alla fine di ottobre, ha suscitato vivo clamore in Israele la decisione del Consiglio della comunità ortodossa di Nazaret di «scomunicare» il proprio sacerdote Gabriel Nadaf, impedendogli di praticare il sacerdozio nella basilica dell’Annunciazione. La scomunica è giunta in seguito alla sua partecipazione a una conferenza, cui hanno preso parte 121 liceali cristiani e altri due preti, organizzata dalle autorità militari allo scopo di promuovere il reclutamento di giovani cristiani nell’esercito israeliano.
Non è mia intenzione fare una valutazione di principio, ossia relativa all’obiezione di coscienza riguardo l’impegno militare dei cristiani. Mi soffermo piuttosto sul pericolo che tali propositi rappresentano per i cristiani nel contesto israeliano. Come si sa, gli unici gruppi religiosi a prestare servizio di leva nelle file dello Tsahal sono gli ebrei (maschi e femmine) e i drusi (solo maschi). Musulmani e cristiani ne sono invece esentati, a meno che si presentino volontariamente. I drusi erano stati inseriti nel 1956 nelle liste di coscrizione sulla base di una tesi secondo cui essi rappresentano un gruppo etnico-religioso distinto dagli altri arabi israeliani. Allora, la leadership religiosa drusa era riuscita a soffocare le voci del dissenso all’interno della comunità, ma da qualche anno si moltiplicano i casi di giovani drusi che oppongono un netto rifiuto all’arruolamento, subendo severe pene detentive. Anzi, studi recenti, come quello svolto nel 2010 dall’Università di Haifa, rivelano che due terzi dei giovani drusi, se potessero scegliere, non si arruolerebbero.
Ora, la stessa strategia del «particolarismo» viene adottata con i cristiani. Illudere i giovani cattolici e ortodossi che, abbracciando l’arma, contribuiscono a proteggere le loro comunità da «abusi e aggressioni» (perpetrati, beninteso, da arabi di altre confessioni religiose) è una politica dannosa per il ruolo e l’identità araba dei cristiani. Tanto più se alla sua promozione partecipano dei sacerdoti. In altri contesti, il servizio di leva rappresenta certamente un’occasione di coesione nazionale, che conferisce all’esercito un’aura di rispetto da parte dell’intera popolazione. Nei pochi mesi in cui ho effettuato il servizio di leva in Libano, ho vissuto fianco a fianco con connazionali appartenenti a tutte – dico tutte – le altre confessioni religiose e provenienti da tutte le regioni del Paese. Una tale coesione non si può affermare nel contesto israeliano. Ancora l’anno scorso, nella guida distribuita alle nuove reclute si leggeva che il loro servizio nell’esercito contribuiva «a garantire la sicurezza del popolo ebraico nella sua terra». Certamente una buona motivazione addotta dal governo israeliano è quella dell’uguaglianza tra i cittadini, in nome della quale è stato sospeso, lo scorso agosto, l’esonero del servizio militare per gli haredim e gli studenti dei seminari rabbinici. Ma la comunità araba, che rappresenta un quinto della popolazione, prima vuole vedere pienamente riconosciuti i propri diritti di cittadinanza.
Una questione che non troverà soluzione al di fuori di un riconoscimento – per ora difficile – del carattere ormai bi-nazionale dello Stato d’Israele. Il caso arruolamento ricorda da vicino quello del solo giudice arabo (e del solo cristiano) della Corte Suprema israeliana Salim Joubran che, alcuni mesi fa, si è rifiutato di cantare l’inno nazionale israeliano Hatikvah. Allora, il premier Benjamin Netanyahu aveva con saggezza assolto il giudice dall’incombenza di recitare il versetto in cui «l’anima ebraica anela con gli occhi rivolti a Sion». Forse questi casi dovrebbero servire da incentivo per creare simboli ed eventi collettivi in cui tutti i cittadini israeliani possano identificarsi senza sentirsi falsi dinanzi a se stessi.