Le imminenti elezioni politiche in Israele (si vota il 22 gennaio) potrebbero non andare affatto come il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva immaginato. Il leader del Likud ha fortemente voluto le elezioni anticipate per rafforzare la propria leadership. Invece si fa largo un partito ancora più a destra, Habayit haYehudi, «il focolare ebraico», guidato dal suo nuovo leader Naftali Bennett, molto vicino al movimento dei coloni più estremisti.
C’è un vecchio adagio che dice di stare molto attenti in politica quando ci si sente troppo sicuri di sé. E se ne sta accorgendo a sue spese Benjamin (Bibi) Netanyahu, ormai alla vigilia delle elezioni che si terranno in Israele il 22 gennaio.
Il leader del Likud ha fortemente voluto le elezioni anticipate, pensando che avrebbero rafforzato la sua leadership: senza un’alternativa credibile a sinistra, ha puntato tutto sull’alleanza tra il suo Likud e Yisrael Beitenu, il partito di Avigdor Lieberman, fusi addirittura in un unico cartello elettorale. Puntava ad avvicinarsi alla soglia dei 50 seggi (su 120) alla Knesset, che gli avrebbe permesso di ridimensionare fortemente il peso specifico dei partiti religiosi all’interno della coalizione di centro-destra. Ma la mossa si è rivelata un boomerang: oggi i sondaggi danno l’alleanza Likud-Yisrael Beitenu sotto i 35 seggi, cioè con una decina di seggi in meno rispetto al parlamento uscente. A vantaggio di chi? Non del centro-sinistra, rimasto sostanzialmente stabile e per di più ulteriormente diviso tra i laburisti e i due nuovi partiti di Tzipi Livni e dell’ex anchorman Yair Lapid. A beneficiare dell’emorragia di voti in corso dal Likud è un partito ancora più a destra, Habayit haYehudi, «il focolare ebraico», guidato dal suo nuovo leader Naftali Bennett. Nel parlamento uscente questa forza politica espressione dei coloni più agguerriti poteva contare su 3 seggi; oggi gliene vengono accreditati 15. Che sommati a quelli (stabili) dello Shas (il partito dei sefarditi) e di Agudat Yisrael (lo storico partito ashkenazita) dovrebbe portare il fronte nazionalista-religioso sopra i 30 seggi. Cioè più di un quarto della Knesset.
Si tratta di una svolta notevole per la politica israeliana. Frutto dell’abilità di Bennett, quarantenne imprenditore informatico di successo, l’uomo giusto per svecchiare l’immagine dei partiti religiosi e intercettare il voto di quel sionismo religioso dei giovani con la kippah, molto più vicino ai movimenti dei coloni che agli abiti neri di Meah Shearim. Proprio sul suo oltranzismo rispetto ai rapporti con i palestinesi Bennett – ex stretto collaboratore di Netanyahu – sta costruendo la sua fortuna. La sua ricetta è niente Stato palestinese e annessione di tutte le colonie; lasciando agli arabi solo l’autogoverno delle città in cui abitano. Si tratta della vecchia ipotesi dei «bantustan», le isole senza continuità territoriale: per Bennett non è più un sogno inconfessato, ma un piano messo nero su bianco. Un’ipotesi inaccettabile per la comunità internazionale ma terribilmente chiara, a differenza del fumo di Netanyahu, che non ha mai presentato una sua visione sull’argomento.
L’ascesa di Bennet sta diventando un vero e proprio incubo per Netanyahu. Adesso il leader di Habayit haYehudi prova a blandirlo dicendo che nessuno mette in dubbio la sua guida della coalizione e che lui vuole solo «aiutarlo a riportare sulla via giusta l’autobus del Likud, che sta sbandando a sinistra». Intanto, però, il blocco dei religiosi comincia a pensarsi come tale: ieri su Yediot Ahronot lo Shas ricordava di essere stato al governo anche con la sinistra. Ipotesi alquanto remota oggi, ma è un modo chiaro per alzare il prezzo con Netanyahu. Il leader del Likud è tornato così ad aggrapparsi all’idea di una grande coalizione con dentro anche qualche forza più a sinistra, l’unico modo per lui di riequilibrare l’asse rispetto a Bennett. Alla fine l’ipotesi più probabile è che – dopo le elezioni – riesca a convincere a entrare nel governo il nuovo partito di Yair Lapid, accreditato di una decina di seggi. Ma con una leadership israeliana sempre più isolata a livello internazionale. Il tutto mentre in Palestina il fuoco cova sotto la cenere.
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Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot
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