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L’Ordine di Malta in Libano. Insieme per la vita

Manuela Borraccino
28 gennaio 2013
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L’Ordine di Malta in Libano. Insieme per la vita
La direttrice Nouhad Balhas (seconda da sinistra) con lo staff del centro medico di Siddikine.

Con una mano tiene la figlia di tre anni, con l’altra Zahra Atui si aggiusta il foulard nero che le circonda il viso acqua e sapone. «Perché vengo proprio qui con tanti ambulatori? Perché sono professionali, perché è un posto familiare, perché mi fanno sentire a mio agio, perché se ho un problema so che qui mi daranno una mano a risolverlo», dice tutto d’un fiato la giovane sposa nata e cresciuta a Qana, nei pressi di Tiro. Ventun anni, contadina, sciita come la maggioranza della popolazione del sud del Libano, Zahra è uno dei 900 pazienti del centro medico di Siddikine aperto dall’Ordine di Malta e dalla Fondazione  Imam Al Sadr nel 1989 e il modello delle donne che la struttura vorrebbe raggiungere: aveva appena 6 mesi quando sua madre l’ha fatta visitare da un neonatologo del centro, ora è qui che si fa seguire da una ginecologa e che a sua volta porta la figlia dal pediatra. «Migliorare la condizione della donna è stata anche qui la chiave per lo sviluppo. Nel 1985 appena il 5 per cento dei bambini nati in questa zona erano vaccinati: oggi sono il 95 per cento, anche grazie a questo poliambulatorio», rivendica con orgoglio la sessantunenne direttrice del centro, Nouhad Balhas.

L’arrivo da Beirut, con le sue boutique scintillanti ed il suo multi-confessionalismo, impone al visitatore un cambio di scenario: a partire da Sidone la strada costiera è tappezzata di bandiere gialle di Hezbollah, di poster dei martiri del Partito di Dio, di gigantografie dello speaker del Parlamento Nabih Berri e ovviamente di Hassan Nasrallah, il leader del partito sciita dal quale oggi dipendono le sorti del governo guidato dal sunnita Najib Mikati. Le onde del Mediterraneo si infrangono placide sulle spiagge di Tiro, ma è vietato fare fotografie all’aperto: così impongono i generali senza nome a capo delle installazioni militari di Hezbollah, strutture invisibili ma onnipresenti secondo i vescovi maroniti che hanno definito il sud del Libano «una polveriera sull’orlo della deflagrazione», sulle quali vigilano gli 12 mila caschi blu dell’Unifil (tra i quali 1.100 militari italiani).

È nel cuore di quest’area rurale a pochi chilometri dal confine con Israele, ai piedi delle colline sulle quali ancora s’intravvedono le torrette con la Stella di Davide abbandonate nel 2000, che sorge il poliambulatorio voluto in piena guerra civile dal principe de Lobkowicz, primo ambasciatore dell’Ordine in Libano, e dai discendenti del compianto sayyed Moussa Sadr, amatissimo filantropo e studioso sciita iraniano-libanese al quale si devono l’apertura di scuole, orfanotrofi, ambulatori, centri di formazione professionale per le donne e iniziative per il dialogo interreligioso, misteriosamente scomparso in Libia nel 1978, a 50 anni, durante una visita ufficiale a Gheddafi. «Venimmo contattati dall’Ordine di Malta nel 1985», racconta la Balhas, membro del Comitato direttivo della Fondazione Imam al Sadr. «La guerra di tutti contro tutti – spiega – aveva ancora di più separato le comunità: il principe de Lobkowicz voleva dare insieme a noi un segnale di convivenza, di coesistenza, di servizio a tutti i cittadini libanesi, in una zona come questa, a maggioranza sciita, che era all’epoca particolarmente chiusa in se stessa». Così nacque quattro anni dopo il centro co-gestito intitolato alla memoria dello studioso sciita scomparso. Un centro che insieme all’assistenza medica, ricorda la Balhas, «ha perseguito un’intuizione sempre presente nel lavoro sociale dell’imam al Sadr: costruire la donna per costruire la società». Da qui è stata fondata una scuola professionale e infermieristica che ha formato in vent’anni 400 ragazze. E l’emblema di questa collaborazione è nella pettorina rossa con la bianca croce a otto punte, simbolo delle beatitudini evangeliche, che le infermiere sciite sfoggiano sul camice bianco, sotto l’immancabile velo stretto sotto al mento. 

Siddikine è il fiore all’occhiello delle attività che l’Ordine di Malta gestisce in Libano ed una delle opere più rappresentative al mondo per l’organizzazione umanitaria nata come ordine religioso laicale nell’XI secolo per difendere e curare i pellegrini che visitavano i Luoghi Santi: la missione dell’Ordine resta ancora oggi quella di difendere la fede e servire i poveri indipendentemente dalla razza, la religione e l’etnia come recita l’antico motto Tuitio fidei, obsequium pauperum. Una cinquantina di dame e cavalieri libanesi promuove con i confratelli francesi azioni di raccolta fondi per garantire i 3 milioni di dollari all’anno necessari per la sopravvivenza di dieci centri medico-sociali, tre centri per anziani, due unità mediche mobili per raggiungere i villaggi più sperduti, una struttura di balneoterapia per bambini gravemente disabili: ogni anno l’Ordine realizza in Libano 160 mila interventi, grazie all’impegno spesso volontario di 127 medici, 50 infermieri, 76 amministrativi.     

«Molti dei centri sono stati aperti durante la guerra: oggi una delle nostre priorità è quella di rispondere ai nuovi bisogni della popolazione, come quello ad esempio di raggiungere a casa o nei villaggi impervi sulle montagne i pazienti poveri, malati e soli che per vari motivi non verrebbero al centro», spiega il dottor Issa Farkh, medico in pensione divenuto una delle colonne del centro di Ain el Remmaneh, a Beirut. È in questo centro pilota, nella sede dell’Associazione libanese dell’Ordine dove vengono anche raccolti e distribuiti i farmaci diretti ai vari ambulatori, che vengono sperimentati i nuovi modelli medici e organizzativi applicati nei centri. E dove l’assillo costante è come mantenere alto il livello dei servizi senza gravare sui pazienti: questi ultimi pagano appena il 15 per cento del costo della prestazione, alla quale il ministero della Sanità libanese contribuisce solo in parte.

«Attraverso la cura dei poveri, dei malati, dei disabili e degli anziani – rimarca il presidente dell’Associazione libanese dei Cavalieri di Malta, Marwan Sehnaoui – il Sovrano Ordine di Malta intende offrire all’intera regione del Medio Oriente un messaggio di amore, di unità del genere umano, di dignità dell’uomo, di rispetto delle differenze: si tratta di un messaggio e di una testimonianza al servizio del bene comune, come ha ribadito il Papa durante il suo recente viaggio in Libano, dei quali questa parte del mondo ha urgentemente bisogno». Così si spiegano anche le quattro sfide che l’Associazione libanese persegue: «Mantenere l’attività socio-sanitaria esistente, un traguardo già molto difficile – spiega Sehnaoui – tenuto conto delle necessità economiche dei centri e delle difficoltà nel reperire i fondi; espandere le nostre attività mantenendo la stessa qualità dei servizi erogati; modulare costantemente il nostro lavoro sui bisogni della popolazione che cambiano; infine fare in modo che l’Ordine, un’organizzazione apolitica e umanitaria ma soprattutto sovrana e con un suo ruolo nel concerto delle nazioni, possa divenire uno strumento sempre più efficace al servizio della pace, del dialogo fra le fedi e della coesistenza».

Forse in nessuno dei centri tirati a lucido dell’Ordine questo sforzo è visibile quanto a Siddikine: perché è qui, in questo poliambulatorio diretto da sole donne sciite tra i villaggi al confine con lo Stato ebraico e sulla linea di demarcazione pro-sunnita o pro-sciita del conflitto che attraversa il mondo islamico, che si misura sul campo la difficile vocazione del Libano. «A Beirut ognuno vede l’altro, mentre nei piccoli centri di tutte le nostre aree rurali l’omogeneità etnico-confessionale lo impedisce», spiegava tempo fa il sociologo e deputato libanese Samir Franjiyeh riferendosi alle tre fasi della storia di Beirut: «Quella in cui si è convissuto per necessità; quella in cui si è cercato di separarsi, disperatamente; e questa: la fase nella quale, dopo aver capito che non ci si può separare, si cerca di migliorare la nostra condizione di conviventi». Una lettura che per molti libanesi non corrisponde solo alla storia della capitale ma dell’intero Libano. E che indica nel Paese mediterraneo una delle vie possibili di quale possa essere il rapporto fra mondo arabo e modernità: costruire la cittadinanza nel rispetto delle differenze.

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