Nel 2007 è stata fondata nei Territori Palestinesi la prima Scuola di Circo. Un'esperienza tutta giovanile che ha introdotto l'arte circense in un contesto che non la conosceva. Oggi sono centinaia i ragazzi e ragazze che frequentano i corsi. Alcuni di loro ci spiegano cosa li spinga a condividere i propri sogni attraverso una forma di comunicazione che non conosce barriere.
(Hebron, Cisgiordania) – Pomeriggio del 2 febbraio 2013. La sala è piena di bambini e i cinque attori sul palco scatenano le loro risate con acrobazie e capriole. La Palestinian Circus School fa tappa nella città di Hebron con lo spettacolo Kol Saber!, a un mese e mezzo dalla morte di Mohammed Zaid Awwad Salayam.
Mohammed aveva 17 anni ed era uno degli studenti della scuola circense. Il 12 dicembre scorso, giorno del suo compleanno, stava andando a comprare una torta per festeggiare in famiglia quando è stato freddato da un colpo di pistola sparato da una soldatessa israeliana vicino al check-point della Moschea di Abramo, che divide Hebron in due parti: H1 e H2, la prima sotto il controllo civile e militare israeliano e la seconda sotto quello palestinese.
Mohammed era nei pressi del check-point quando ha avuto un diverbio con i soldati: secondo l’esercito israeliano aveva in mano una pistola giocattolo che avrebbe spaventato i militari. Secondo alcuni testimoni, il ragazzo aveva preso le difese di un bambino.
Molti tra i bambini e i ragazzi di Hebron che il 2 febbraio assistono allo spettacolo del circo erano compagni di acrobazie di Mohammed. «Quando è stato ucciso, eravamo in tournée in Belgio – ci racconta Shadi Zmorrod, fondatore e amministratore della Palestinian Circus School –. Per noi è stato uno choc: Mohammed era un ragazzo solare, divertente. Andremo a far visita alla famiglia. La Scuola non si è mai fermata, ad Hebron i corsi proseguono nel ricordo di Mohammed».
In Palestina è difficile dimenticarsi dell’occupazione militare. La questione irrompe con forza anche quando si sta su un palcoscenico a fare acrobazie o a giocolare con clave e cerchi: «Il titolo del nostro spettacolo, Kol Saber!, significa «Mangia il cactus!» o, metaforicamente, «Mangia la pazienza!». Lo show che stiamo portando in giro per la Palestina e l’Europa – ci spiega uno degli attori, Fadi Zmorrot – parla di questo: del rapporto tra oppresso e oppressore, del modo in cui le persone agiscono e si trasformano quando si trovano in una posizione di potere».
Fadi ha 32 anni, vive a Gerusalemme e da otto anni è attore e insegnante alla scuola circense. Ha iniziato quasi per caso, incuriosito dal progetto messo in piedi dal fratello Shadi: «Prima l’unico modo in cui esprimevo la mia creatività era attraverso la pittura. Ora, facendo l’attore, è molto più facile. Recitando cambio ogni volta, maturo, cresco. E questo grazie all’interazione continua con il pubblico e i miei compagni. Anche l’idea della Palestina cambia continuamente, cambia la percezione di terra, di patria».
Shadi si sta preparando allo spettacolo, tra pochi minuti si va in scena. Occhi azzurri, corpo atletico, sorride mentre ci parla in italiano, imparato nei due anni trascorsi alla scuola di circo di Torino. «Il messaggio che vogliamo inviare con lo spettacolo è il ruolo che l’oppressione ha nella vita delle persone, le dinamiche che l’autorità produce. E questo accade in tutto il mondo. Si tratta di un messaggio applicabile a qualsiasi realtà».
Sul palcoscenico, l’attenzione degli attori e del pubblico è catturata da due giacche: una dorata a rappresentare il sogno, la seconda nera con i gradi sulle spalline, ovvero il potere. I cinque attori saltano, corrono, si arrampicano e camminano sui fili: tutto per accaparrarsi la giacca dell’autorità. E se quella dorata li unisce, avvicina i personaggi fisicamente e mentalmente perché foriera di un sogno comune, quella nera li allontana, crea distanze e ruoli gerarchici.
«L’idea di Kol Saber! è nata dalle esperienze comuni di noi attori – spiega Fadi –. Ognuno ha portato la sua personale idea di autorità che, parlando, si è fatta comune, collettiva. Nello spettacolo non parliamo mai se non alla fine. La parola limita il messaggio, lo rende assoluto. Recitando solo con il corpo, lasciamo allo spettatore (e prima ancora agli attori) la possibilità di interpretare il messaggio, di farlo proprio, di utilizzare l’immaginazione. Lo show cambia in relazione al pubblico: bambini o adulti, palestinesi o internazionali».
Un obiettivo, quello di istigare all’immaginazione, che la Palestinian Circus School porta avanti da otto anni. Era l’agosto del 2006 quando Shadi Zmorrod e una manciata di altri sognatori fondarono in Palestina la prima scuola di circo, un’arte distante da quelle tradizionali arabe. «Faccio teatro – ci racconta – da quando avevo 12 anni, a Gerusalemme, ma durante la seconda intifada me ne sono allontanato. Non volevo spartire la mia arte con attori israeliani. Poi qualcosa è cambiato: sono andato in Belgio dove ho lavorato con circensi di tutto il mondo. E ho capito che l’arte ha il merito di mettere insieme le persone, di annullare le differenze. Sono tornato in Palestina e ho fondato la Scuola».
La sede principale è a Birzeit: qui si insegna l’arte circense a tre livelli, dal principiante al professionista. Ci sono poi i Circus Club, lezioni di circo settimanali in diverse città della Cisgiordania: Ramallah, Hebron, Jenin e il campo profughi di Al Fara’a. Vi prendono parte 178 studenti: 96 maschi e 82 femmine dai 10 ai 27 anni d’età. Imparano la giocoleria, le acrobazie, i tessuti, l’acrobatica, ma anche a fare teatro.
«Ho iniziato a studiare circo nel marzo del 2008 – racconta Noor Fawaz Abu AlRob, 21 anni, di Jenin –. All’epoca non avevo idea di cosa fosse il circo. Ho scoperto che non ci si limita a un particolare tipo di sport o di arte, ma ci si apre a tutte le culture. È la sola cosa che voglio fare, il mio sogno era diventare insegnante e ci sono riuscito».
In pochi anni, la Palestinian Circus School è diventata una realtà consolidata: spettacoli nei teatri, per le strade, ai festival palestinesi. Ma non solo: la Scuola gira l’Europa, tante le tournée organizzate in Belgio e in Francia.
La dimensione artistica ed educativa del circo per combattere le ingiustizie, l’occupazione, l’oppressione fisica e mentale in cui sono costretti bambini ed adulti, costantemente sottoposti ad umiliazioni e quindi a rabbia e frustrazione. «Abbiamo un doppio obiettivo – ci spiega il manager Shadi –. A livello locale, la società palestinese accusa spesso l’occupazione israeliana di ogni tipo di mancanza o restrizione. Sicuramente è così, ma dobbiamo imparare a lavorare su noi stessi, all’interno della nostra cultura, cambiarla e migliorarla, in particolare nel rapporto tra i sessi. Per questo il nostro target sono i bambini: sono loro i futuri leader della Palestina e, una volta adulti, saranno stati influenzati dalle energie negative introiettate da piccoli. Dobbiamo dare loro energie positive».
«E a livello internazionale, il nostro scopo è aprire le porte della Palestina a chi non la conosce o a chi si ferma a triti stereotipi: il mondo ci guarda ma non ci conosce. Attraverso il circo mostriamo loro il nostro vero volto». Un volto creativo, profondo, originale, solare. Come solo un circo sa essere.