I Territori Palestinesi stanno pericolosamente sperimentando in questi giorni il clima di violenza degli anni dell’intifada, con sassaiole contro l’esercito israeliano e manifestazioni nelle strade. Ad innescare le proteste è stata la morte di Arafat Jaradat, un palestinese di 30 anni, detenuto in una prigione israeliana.
(Milano/c.g.
) – I Territori Palestinesi occupati stanno pericolosamente sperimentando, in questi giorni, il clima di violenza degli anni dell’intifada, con sassaiole contro l’esercito israeliano (che ha risposto con il lancio di lacrimogeni e granate), manifestazioni nelle strade e slogan che inneggiavano al martirio.La miccia che ha innescato le proteste è stata la morte di Arafat Jaradat, palestinese di 30 anni, benzinaio e padre di due figli, avvenuta sabato scorso, 23 febbraio in una prigione israeliana. Jaradat era stato arrestato il 18 febbraio scorso, con l’accusa di aver lanciato sei sassi ad automobili israeliane di passaggio. Portato in carcere e sottoposto a interrogatori da parte dello Shin Beth – i servizi di sicurezza interna israeliani – ne è uscito cinque giorni dopo morto. Secondo le autorità palestinesi, Jaradat sarebbe spirato a causa delle torture inflittegli in prigione, provate da fratture in diverse parti del corpo (collo, spina dorsale, braccia e gambe); secondo la parte israeliana, invece, il detenuto avrebbe subito un arresto cardiaco e le costole effettivamente rotte del giovane, sarebbero state spezzate durante un disperato tentativo di rianimazione.
Il giorno del suo funerale, nel villaggio di Saeer, dove Jaradat abitava, la tensione è stata altissima: l’esercito israeliano ha preso posizione all’esterno dell’abitato, a una distanza sufficiente da sentire colpi di arma da fuoco esplosi durante la cerimonia da una mezza dozzina di palestinesi in assetto da guerra, a viso coperto, mentre la folla di migliaia di persone inneggiava al martire. Lo stesso giorno, dozzine di palestinesi hanno lanciato sassi contro i soldati israeliani, in diverse parti della Cisgiordania, provocando il lancio di lacrimogeni e granate da parte dell’esercito. Anche dalla Striscia di Gaza, martedì, è stato sparato un missile contro Israele, apparentemente in segno di protesta per la morte di Jaradat.
Nonostante la violenza esplosa e i nervi tesi dall’una e dall’altra parte, pare che nessuno in Palestina desideri veramente lo scoppio di una terza intifada (dopo la prima, divampata tra il 1987 e il 1993, e la seconda, tra il 2000 e il 2004): l’inviato delle Nazioni Unite per la pace in Medio Oriente, Robert Serry, dopo aver parlato con il primo ministro palestinese Salam Fayyad, ha richiesto immediatamente un’autopsia sul corpo di Jaradat, per giungere nel modo più trasparente e indipendente alla conoscenza delle reali cause della morte.
«Gli israeliani vorrebbero la Palestina in uno stato di caos – ha commentato il presidente palestinese, Mahmoud Abbas –. Ma non gli permetteremo di mettere a rischio la vita dei nostri figli e dei nostri giovani». «Il missile lanciato martedì dalla Striscia è da intendere come un avvertimento e non come una escalation contro l’occupazione israeliana», ha spiegato all’agenzia Maan, Talal Ukal, analista politico che vive a Gaza.
«Hamas non ha nessuna intenzione di far scoppiare una rivolta armata o civile – ha aggiunto, Shakir Shubat, analista che vive in Cisgiordania – perché in questo momento sta cercando di raggiungere un accordo pacifico e non desidera che nella Striscia si torni a uno stato di guerra».
Secondo il ministro israeliano del Fronte interno di difesa, Avi Dichter, invece i palestinesi starebbero cercando di recitare il ruolo delle vittime, alla vigilia della visita del presidente americano Barack Obama nella regione, prevista per il prossimo mese. «Stanno esasperando la situazione – ha spiegato Dichter – portandoci al punto in cui un bambino potrebbe cadere vittima degli scontri».
Il tema dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane rimane comunque uno dei nervi scoperti del dialogo tra israeliani e palestinesi. Secondo l’associazione pacifista israeliana B’Tselem, nel gennaio 2013 sarebbero stati circa 4.600 i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, di cui 3.200 con una condanna definitiva e circa un migliaio in attesa di processo (quest’ultimo migliaio vanno aggiunti altri 160 prigionieri in detenzione amministrativa e cioè senza accuse formali né processo).