Il testo che qui vi proponiamo è un estratto dal libro Latte, mile e e falafel, scritto dalla giornalista Elisa Pinna e appena pubblicato dalle Edizioni Terra Santa (220 pagine, 16,40 euro). Cercatelo in libreria, oppure acquistatelo online.
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Mai tanti cristiani erano giunti da Paesi così lontani e si erano stabiliti in Terra Santa dai tempi delle crociate. Negli ultimi due decenni, il panorama del cristianesimo in Israele è completamente mutato. Accanto alla storica comunità di arabi cristiani, una nuova realtà si sta espandendo a ritmi impensabili e imprevedibili. Sono i filippini, gli indiani, gli srilankesi, i latino-americani, arruolati dagli israeliani come manodopera a basso costo, talvolta nel lavoro dei campi o nell’edilizia, ma soprattutto come badanti per anziani. Hanno sostituito in larga parte i palestinesi dei territori che, dallo scoppio della prima intifada, non possono più lavorare legalmente in Israele. (…)
Per quanto sia difficile disporre di dati demografici affidabili, se si considerano tutti questi gruppi nel loro insieme si arriva alla conclusione che in Israele oggi ci sono circa 400 mila residenti, tra temporanei e permanenti, che si richiamano al cristianesimo cattolico o ortodosso: è una popolazione multietnica e multi-confessionale che affianca e insidia il primato degli arabi cristiani originari della Terra Santa.
Alcuni sono cittadini israeliani, come i russi, i più appartengono all’esercito dei lavoratori temporanei. Qualcosa però li accomuna. «La maggioranza degli israeliani non si è accorta di loro. È una popolazione che è presente ed assente al tempo stesso», afferma Hana Bendcowsky del Centro di Gerusalemme per le relazioni cristiano-ebraiche.
Ci mettiamo in viaggio alla scoperta di questo mondo poco conosciuto insieme a padre Jay, un giovane francescano di origini indiane, appartenente alla Custodia di Terra Santa. Il suo vero nome è Jayaseellan Pitchaimuthu, ma tutti, per comodità, lo chiamano Jay. Per lui, come per gli altri sacerdoti che si occupano dei «nuovi cristiani», il sabato è una giornata di intenso lavoro. Invisibili durante la settimana lavorativa, ombre silenziose nelle case di anziani benestanti o mimetizzati in tute anonime nelle fabbriche e nelle campagne, sbucano improvvisamente dal niente durante lo shabbat, il giorno festivo del calendario ebraico, ed affollano a migliaia i loro punti di incontro e di riconoscimento, ovvero le chiese di Gerusalemme e Tel Aviv.
«I cristiani immigrati sono talmente numerosi che servirebbe una cattedrale cattolica in ciascuna delle principali città di Israele», mi dice padre Jay. «Solo i filippini, dai 5 mila che erano nel 1994, sono passati ora a 40 mila. Non abbiamo clero a sufficienza e non abbiamo chiese a sufficienza». Le messe del sabato si svolgono spesso in posti improvvisati, in capannoni o baracche dove, durante la settimana, vivono famiglie di immigrati e che, di sabato, si trasformano in piccole cappelle. I riti religiosi si susseguono ad un ritmo di catena di montaggio, uno dietro l’altro, con i sacerdoti delle diverse nazionalità che si incrociano in sagrestia, il tempo di togliersi l’abito liturgico e via, di corsa in qualche altra chiesa o città, prendendo al volo i rari taxi che passano o, alla peggio, improvvisandosi autostoppisti, insieme ai giovani militari di leva in permesso.
Nei luoghi sacri è una babele di lingue, un guazzabuglio di liturgie, battesimi, matrimoni, cresime. L’assemblea dei filippini fa appena in tempo a rendere grazie a Dio per la messa finita e ad alzarsi dalle panche che già spingono e si infilano gli africani, mentre schiere di indiani e srilankesi aspettano il loro turno sul sagrato. (…).
Gli immigrati indiani in Israele sono circa 10 mila e provengono dal sud dell’India, dalla regione di Goa, o dalle regioni di Bangalore e Chennai (da noi conosciuta come Madras). Per circa metà sono cattolici; l’altra metà si divide tra protestanti e induisti. Ottengono, come i filippini e le altre comunità asiatiche, un visto speciale per prendersi cura di anziani o handicappati. Il permesso dura cinque anni e per legge non consente di svolgere altri lavori. Qui siamo comunque nel Levante e tutto come sempre è molto ambiguo e lasciato alla discrezionalità delle autorità: capita che un immigrato alla fine rimanga decine di anni.
Israele – spiega padre Jay – attira immigrati indiani (e di molte altre parti dell’Asia) per due motivi. Il primo è economico: stipendi decenti, una buona qualità della vita. Vi è però un’altra ragione: il fascino che la Terra Santa continua ad esercitare sui tanti cristiani di continenti lontani. Nel caso degli indiani poi, un motivo in più: nel Paese vivono circa 70 mila ebrei di origine indiana. I contatti, il passaparola, una certa solidarietà facilitano le cose.
Forse anche per questo i cristiani indiani – mi assicura padre Jay – sono molto popolari tra gli israeliani. Piacciono, incuriosiscono. Sono un ottimo strumento di evangelizzazione perché – spiega il francescano – mostrano un volto diverso del cristianesimo rispetto a quello tradizionale europeo, considerato all’origine delle persecuzioni antisemitiche. (…)
Eccoci a Jaffa, nella chiesa di Sant’Antonio, in un bel viale alberato. Padre Jay è all’altare a celebrare una messa in konkani, la lingua parlata sulla costa occidentale dell’India, le regione di Goa e del Kerala da cui provengono tanti immigrati. Il parroco di Sant’Antonio, Ramzi Sidawi, un palestinese nato a Gerusalemme, ne approfitta per rifiatare qualche minuto, prima di ricominciare ad officiare. Oggi, nella chiesa, una struttura chiara senza troppe pretese, si sono celebrati anche un matrimonio tra due eritrei e sette battesimi, sei neonati filippini e un eritreo.
Dalla finestra del suo studio, Ramzi sente ogni giorno bambini dell’Africa, delle Filippine e di tante altre parti del mondo che giocano comunicando tra loro in ebraico, la lingua parlata a scuola e dai datori di lavoro dei loro genitori. «Questo può essere un problema per l’identità cristiana», commenta. Ormai ci sono in Israele diverse migliaia di figli di immigrati che parlano l’ebraico come prima lingua, celebrano le feste ebraiche insieme ai loro compagni di scuola e sono attratti dalla cultura dominante. Per questo, è stato pubblicata una versione in ebraico del catechismo e gli incontri di preparazione alla prima comunione e alla cresima si svolgono ormai in ebraico. (…)
L’ultima tappa della giornata è nel girone dei profughi africani. Torniamo alla stazione degli Sherut di Tel Aviv. La sensazione è di spaesamento. Veniamo da un quartiere benestante di Jaffa e ci ritroviamo improvvisamente – in pieno centro città – in una baraccopoli dell’Africa nera. La chiamano lo «Stato del Parco Levinsky», perché in questo parco pubblico, dove di verde sono rimaste solo poche magnolie, si è creato un mondo a parte. (…) Qui – mi spiega padre Jay – vivono gli ultimi tra i disperati, quelli appena arrivati dai loro Paesi d’origine, soprattutto l’Eritrea e il Sud Sudan: «Sono cristiani». La maggior parte arriva passando attraverso il Sinai, pagando forti tangenti alle tribù dei beduini che li guidano lungo le piste del deserto e li portano oltre il confine israeliano. Quando va bene. Quando va male, sono rapiti dai loro stessi accompagnatori che chiedono riscatti ai parenti rimasti in patria. Se i soldi non arrivano sono torturati, uccisi.
In grande maggioranza sono uomini, ma si vedono anche donne e bambini. Fuggono da dittature e persecuzioni e hanno, almeno in teoria, diritto all’asilo politico. Una volta in territorio israeliano, gli immigrati sono fermati dalla polizia israeliana che controlla la loro identità e i loro Paesi di origine. Chi non è subito rispedito indietro riceve un «permesso condizionale» ed è imbarcato su un autobus che ferma nei pressi del Parco Levinski. Con il tipo di permesso ricevuto non possono lavorare legalmente. (…)
Lo Stato ebraico è stato il primo Paese al mondo a riconoscere il Sud Sudan, nato dalla secessione della popolazione cristiana ed animista dal regime musulmano del nord: in questo modo le autorità possono sostenere che i sud sudanesi in Israele non hanno più diritto all’asilo politico e che dunque possono essere rimpatriati; una procedura immediatamente avviata.
Ci sono state manifestazioni contro gli africani, talvolta fomentate da deputati della Knesset. Lo Stato non muove un dito per aiutare i rifugiati; se non fosse per l’impegno di attivisti e organizzazione umanitarie ebraiche, i più non potrebbero andare avanti. La loro presenza crea indubbia esasperazione. Nel maggio 2012, un migliaio di persone, tra cui diversi parlamentari, ha bruciato i negozi che vendono cibo ai profughi, distrutto le baracche, malmenato gli africani. (…)
«Sono episodi che mettono i brividi – riflette padre Jay -. A volte, tra questi disperati, trovare una parola di speranza può sembrare ipocritamente falso. E le forze sono disperatamente poche rispetto al bisogno. Poi penso a quanto stiamo facendo, qui a Tel Aviv, a Jaffa, a Gerusalemme: e allora non mi arrendo».