La sentenza resa pubblica il 24 aprile scorso dai magistrati di Tel Aviv non ha chiuso la battaglia legale su Cremisan in corso già da sette anni. L’ultima parola l’avranno i giudici dell’Alta corte di giustizia israeliana.
Cremisan è una collina rigogliosa di 170 ettari coltivati a vigne e ulivi appena a nord-ovest della città di Betlemme. Vi sono i poderi di 58 famiglie di coltivatori, in gran parte abitanti del villaggio di Beit Jala, e due proprietà più ampie: la casa ove ha sede l’azienda vitivinicola fondata dai salesiani nel 1885, e, più a valle, il convento e i terreni delle suore salesiane. Da decenni le religiose mandano avanti una scuola elementare che oggigiorno offre istruzione primaria ad oltre 400 alunni palestinesi.
A ovest e ad est della collina sorgono gli insediamenti israeliani di Har Gilo e di Gilo. La linea verde tracciata con l’armistizio del 1949, dopo la guerra arabo-israeliana dell’anno prima, passa più a nord. Di là Israele, di qua i Territori palestinesi sotto occupazione militare israeliana dal 1967.
La distanza tra il centro di Gerusalemme e Betlemme è di circa otto chilometri, ma le periferie delle due città praticamente si toccano, anche perché gli israeliani negli ultimi decenni hanno continuato a costruire nuovi complessi edilizi (come Gilo e Har Grilo appunto) per ampliare verso sud – oltre la linea armistiziale – la loro capitale «una, eterna e indivisibile».
L’alta barriera difensiva israeliana costruita alle porte di Betlemme a partire dal 2004 sorge in quelli che la comunità internazionale e i palestinesi considerano Territori occupati (gli israeliani respingono questa interpretazione del diritto internazionale e non considerano la linea verde un confine definitivo). Quello che per Israele non va concepito come una frontiera, per i palestinesi è un vero e proprio «muro d’annessione».
Ora come ora sulla collina di Cremisan la barriera si interrompe. Il primo tracciato previsto dalle autorità israeliane passava a sud del convento delle suore (nella foto), isolando quasi tutta la collina e la scuola stessa dai vicini villaggi palestinesi. I coltivatori hanno fatto ricorso in tribunale, le suore si sono associate a loro in un secondo momento, concordi nel chiedere che il muro sorga ben più a nord, in prossimità della linea verde. In tal modo la barriera risparmierebbe i terreni agricoli e non li separerebbe dalle abitazioni dei loro legittimi proprietari. Inoltre non vi sarebbero impedimenti alla libera comunicazione tra le suore, la popolazione e la casa dei salesiani.
La sentenza del 24 aprile scorso, però, non ha preso in esame la richiesta di spostare il tracciato del muro salvaguardando la collina e abbattendo la parte già costruita. Ha soltanto riconosciuto l’opportunità di mutarne di poco il percorso nel tratto non ancora realizzato. La variante ammessa – lunga circa un chilometro e mezzo – cingerebbe su tre lati il convento delle salesiane, lasciandolo sul versante palestinese ma separandolo dai suoi terreni e dalla casa dei salesiani che resterebbero accessibili grazie a un cancello agricolo presidiato dai soldati israeliani.
La soluzione non soddisfa né la popolazione (in buona parte cristiana) di Beit Jala né le salesiane, che ricorreranno all’Alta corte. Delusione è stata espressa anche dalle autorità ecclesiastiche locali. Un comunicato degli ordinari cattolici di Terra Santa firmato dal presidente, il patriarca latino Fouad Twal, definisce la decisione «ingiusta».
Il 3 maggio si è espresso per iscritto anche il responsabile dei salesiani in Medio Oriente, don Munir El Rai. Tramite lui i salesiani esprimono sostegno alle famiglie di Beit Jala e ribadiscono che «le autorità israeliane hanno stabilito tutto il percorso del muro con decisioni unilaterali, senza tener conto del parere legale emanato dalla Corte Internazionale di Giustizia, a riguardo della costruzione del muro, in data 9 luglio 2004».