Mantenere la stabilità regionale e preservare lo status quo interno: le monarchie del Golfo hanno perseguito questo obiettivo nel sostenere le transizioni in Tunisia ed Egitto e nel condizionare le rivolte in Libia, Siria, Yemen e Bahrein, mentre erogavano aiuti a Marocco, Giordania ed Oman. Una conferenza sul tema ieri a Milano.
(Milano) – Mantenere la stabilità regionale e preservare lo status quo interno: le monarchie del Golfo hanno perseguito questo obiettivo nel sostenere le transizioni in Tunisia ed Egitto e nel condizionare le rivolte in Libia, Siria, Yemen e Bahrein, mentre erogavano aiuti a Marocco, Giordania ed Oman. Così alcuni tra i più esperti analisti stranieri leggono l’attivismo dei Paesi del Golfo negli sviluppi delle Primavere arabe, in una conferenza internazionale promossa dalla Camera di Commercio, Ispi e IntesaSanPaolo il 5 giugno a Milano.
I Paesi del Golfo hanno svolto un ruolo contro-rivoluzionario nelle rivolte del 2011? Fino ad un certo punto, risponde la politologa Sally Khalifa Isaac, professore associato di Scienze politiche all’Università del Cairo durante la conferenza Monarchie del golfo, nuova stagione dopo le Primavere arabe?. Certo, allo scoppiare delle prime proteste in patria e nel Bahrein all’inizio del 2011, l’Arabia Saudita si è affrettata a distribuire fra i sudditi prebende e sussidi tratti dalle rendite petrolifere per ben 130 miliardi di dollari, e a stroncare sul nascere, con l’invio di truppe, la rivolta della maggioranza sciita in Bahrein.
Ma assai diversificato è stato il ruolo che il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) ha giocato negli altri Paesi. In Egitto, pur di bloccare un’eventuale influenza dell’Iran sul nuovo governo dei Fratelli Musulmani, l’Arabia Saudita prima ha versato un miliardo e mezzo di dollari nelle casse della Banca centrale egiziana per evitare la bancarotta, poi ne ha stanziati altrettanti in investimenti diretti nel triennio 2011-2013, e non da meno sono stati gli aiuti degli Emirati Arabi (3 miliardi di dollari) alle piccole e medie imprese, del Qatar (10 miliardi) per pianificazione di infrastrutture o del Kuwait (168 milioni) per gli enti statali. «Non ci sono informazioni pubbliche – ha rimarcato la studiosa – sulle condizioni associate a queste generose offerte di assistenza, né si sa su quali basi o attraverso quali canali questi fondi verranno erogati».
Diverso è stato il caso della Tunisia, dove per la minore importanza strategica del Paese maghrebino il Qatar ha staccato un assegno da appena mezzo miliardo di dollari per la Banca centrale, e l’Arabia Saudita si è limitata a mandare 530 tonnellate di aiuti umanitari. Tale approccio contrasta con l’aiuto dato a tre Paesi che sono stati solo lambiti dalle rivolte: in Oman il Ccg ha stanziato 10 miliardi di dollari per aiuti allo sviluppo, mentre Giordania e Marocco sono stati attratti con un fondo di 5 miliardi di dollari nel progetto di includere anche le due monarchie nel Ccg.
È soprattutto in Siria che i Paesi del Golfo hanno mostrato tutta l’ambiguità del loro approccio. Dopo aver votato per l’espulsione della Siria dalla Lega araba, fin dallo scoppio della rivolta a Dera’a (nella primavera del 2011) tanto il Qatar quanto l’Arabia Saudita si sono trasformati nei principali sostenitori dei ribelli siriani, salvo poi esser costretti a riconoscere l’errore di calcolo compiuto sulla stabilità del regime di Bashar al-Assad. «A quel punto – ha sottolineato Khalifa – i Paesi del Golfo hanno fatto un passo indietro, almeno sulla retorica interventista. Ma secondo varie fonti tanto i sauditi quanto i qatarioti hanno continuato a sostenere con le armi e con il denaro i vari elementi della frammentata opposizione siriana, fossero nazionalisti, islamisti o laici. Solo per gli aiuti umanitari, sono stati stanziati un miliardo e mezzo di dollari. Un rifornimento aereo di armi per i ribelli siriani, finanziato dall’Arabia Saudita, è stato coordinato tre mesi fa dagli Stati Uniti dalla Croazia con l’aiuto di Gran Bretagna e di altri Stati europei. È chiaro che questo appoggio all’opposizione siriana – chiosa la studiosa – sembra esser mirato a controbilanciare tanto il sostegno dell’Iran e degli Hezbollah libanesi al regime di Assad, quanto la capacità militare dei gruppi jihadisti presenti in Siria che si dice siano assai meglio equipaggiati di altri gruppi di ribelli, e il cui ruolo sul campo allarma non poco i Paesi occidentali e mediorientali».
Le rendite petrolifere hanno insomma permesso ai Paesi del Golfo di giocare un ruolo di primo piano nel post-2011, ma una condizione, come l’attuale, caratterizzata da poche tasse e molti sussidi non durerà a lungo.
Non è detto insomma che l’Arabia Saudita, definita «uno dei grandi vincitori della Primavera araba» dall’ex ambasciatore italiano a Ryadh Armando Sanguini, possa mantenere a lungo il potere egemonico di influenza nell’area, soprattutto alla luce del prossimo cambio di leadership con le imminenti elezioni in Iran, delle convulsioni in Iraq, dove solo a maggio gli attentati hanno provocato più di mille vittime, e della violenze che negli ultimi giorni hanno scosso Istanbul.