Come avviene di tanto in tanto, israeliani e palestinesi hanno ripreso a negoziare la pace, che comunque un giorno – alla fine – dovranno fare. Anch’io, in passato, e a lungo, mi sono occupato di negoziati tra Chiesa e Stato. E credo che ci sia un’arte del negoziare applicabile in ambiti diversi. Così ha ritenuto una facoltà economica (business school), che anni addietro mi ha invitato a condividere le massime suggeritemi dall’esperienza.
Eccone alcune.
1) Il negoziatore venga al tavolo con una bozza completa del desiderato accordo; diversamente si rischia di perdersi in chiacchiere inconcludenti. La bozza sia realistica, e cioè tenga lealmente conto delle prevedibili giuste esigenze della controparte, seppur lasciando spazi per il compromesso.
2) Scambiate le due bozze, esse vadano combinate per formarne una sola contenente le rispettive posizioni sui singoli argomenti sollevati dall’una e dall’altra parte. Il negoziato consiste dunque nel colmare la distanza tra le due posizioni all’interno di ciascuno degli «articoli», con il conseguente aggiornamento continuo della bozza «unificata».
3) In quest’ultima si dichiari che «nulla è concordato fino a che non lo sia tutto». Così ci si permette di negoziare «a tutto campo» e di arrivare a compromessi trasversali, evitando la frammentazione del negoziato e le concessioni senza contraccambio.
4) Si evitino i rinvii ad eventuali future trattative. Non si ceda alla tentazione di firmare comunque «un accordo», seppur privo di buona parte della sostanza, lasciandola al «dopo». Calata la tensione propulsiva con la firma di «un accordo», è probabile che mai più si riuscirà a realizzare quello che ora non si ottiene. Il rinvio è utile soltanto quando serve a mascherare un’effettiva rinuncia che non conviene però formalizzare, oppure qualora si tratti di integrazioni solo tecniche e non oggetto di controversia.
5) Il negoziato efficace può benissimo assomigliare più al pugilato che al minuetto. Il tratto decisivo del negoziato meglio riuscito di tutta la mia «carriera» – quello che ha portato all’Accordo tra Santa Sede e Israele del 1997 sulla personalità giuridica degli enti ecclesiastici – si svolse nel corso di una giornata, una notte bianca e un’altra mezza giornata. E vide il mio omologo per lo Stato d’Israele, il compianto giudice Tzvi Terlo, e me lavorare quasi ininiterrottamente. Era uno spettacolo. Ci sgridavamo, minacciavamo ciascuno ripetutamente di disertare l’aula per non tornarci più, dichiaravamo ciascuno a sua volta che questa o quell’altra posizione sarebbe stata «non-negoziabile» in assoluto, deridevamo l’uno la logica e le conoscenze dell’altro, fumavamo sigari, sigarette e pipe, bevevamo il whiskey alternandolo con il caffè, diventammo amici e ottenemmo l’accordo, su tutto.
6) Quindi per arrivare all’accordo occorre che i negoziatori siano idonei, perché dai due lati del tavolo si siedono questi, non astrattamente «le parti».
7) Ed infine la lezione fondamentale è questa: laddove ci sia la volontà condivisa di raggiungere l’accordo, l’accordo ci sarà. E se non vi si arriva, è o perché gli individui incaricati non sono competenti o perché almeno una parte non veramente lo vuole. Voglia Dio ispirare a entrambe «le parti» propositi di pace.