Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Martiri e testimoni sulla via del Paradiso

Camille Eid
8 ottobre 2013
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L’estate si prevede molto calda, e soprattutto lunga». Quando ho chiuso con questa affermazione la precedente rubrica, non mi aspettavo una vampata di violenza simile a quella che ha investito tutto il Medio Oriente e che rischia ora di trascinarlo in una guerra aperta. Le immagini provenienti dall’Egitto che ritraggono cadaveri allineati per terra, avvolti in un lenzuolo bianco e in alcuni casi «raffreddati» da una busta di plastica verde piena di ghiaccio, hanno fatto il giro del mondo. Poi ci sono state le sconvolgenti immagini provenienti dalla Siria che ritraggono bambini, donne e uomini in preda a convulsioni e sintomi di soffocamento provocati da sostanze chimiche. Senza dimenticare le decine e decine di morti a Baghdad e a Tripoli del Libano, vittime di autobombe diventate normalità quotidiana.

In tutti questi casi, mi ha colpito l’immediata elevazione delle vittime al rango di martiri. Come nel greco, la parola araba shaha-da indica sia il martirio che la testimonianza. Così viene, infatti, definito il primo pilastro dell’Islam, la testimonianza di fede in un unico Dio e nel suo messaggero. Di conseguenza, e a seconda del caso, la parola shahīd viene a significare nel Corano sia il martire che il testimone. Forse pochi sanno che l’unico caso di martirio citato nel Corano, quello della «Gente del Fossato», narra la storia di martiri cristiani. Si riferisce infatti ai martiri di Najran, uccisi nel 523 nell’Arabia meridionale, che vengono ricordati nel calendario romano il 24 ottobre.

Solo per il martire, il rituale funebre islamico prevede che il corpo non sia lavato dal sangue e venga sepolto con gli abiti che indossava al momento della morte. Secondo alcuni teologi, non gli si deve nemmeno attribuire la preghiera collettiva in cui si chiede ad Allah di avere misericordia di lui. Infatti, si parla negli hadith, i detti attribuiti a Maometto, di sei  «prerogative» concesse al martire: «Gli vengono perdonati i peccati all’istante ed egli vede il suo posto in Paradiso; gli viene risparmiata la sofferenza della tomba; viene rassicurato nel Giorno del grande timore; viene posta sul suo capo una corona di dignità dove la singola pietra preziosa vale più dei beni di tutto il mondo; gli vengono offerte 72 spose tra le urrì, le fanciulle dai grandi occhi neri; e gli viene concesso di intercedere per 70 persone tra i suoi parenti».

Nella voce dedicata alla «bramosia di martirio», l’imam al-Bukha-ri riferisce questo hadith di Maometto: «Per Colui che tiene la mia anima nella sua mano, vorrei morire sulla via di Allah, poi resuscitare e morire, poi resuscitare e morire, poi resuscitare e morire». Un altro hadith illustra il desiderio del martire di «tornare in vita dieci volte per essere ucciso per la tanta dignità riscontrata». Nulla di strano se, dopo tutto ciò, il martirio viene oggi elevato alla massima aspirazione di un musulmano. I familiari dei «martiri» spesso fissano dei giorni per ricevere le congratulazioni della gente al posto delle condoglianze. Un versetto del Corano adorna quasi sempre gli annunci di morte: «Non considerare morti quelli che sono stati uccisi sul sentiero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore».

Nella moschea al-Salam del Cairo, la tensione era altissima ai funerali della diciassettenne Asma, figlia di uno dei leader dei Fratelli musulmani, uccisa durante lo sgombero forzato del sit-in pro Morsi. Nell’appendere la sua morte, il padre aveva sul viso un’espressione di dolore mista a gioia. I martiri, sottolineano alcuni teologi musulmani, non cadono, ma si innalzano.

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