Il ministero dell’Interno rialza la testa
Nei giorni scorsi al Cairo il presidente ad interim Adly Mansour ha firmato una nuova «legge anti-proteste». Soffocare ancora il diritto a manifestare è una mossa politica sconsiderata, in un Paese in cui, dopo tre anni di rivolte, elezioni, rovesciamenti di governo e battaglie fra istituzioni, l’unico vero spazio di partecipazione politica che ha qualche efficacia è ancora la piazza.
«D’ora in poi, se il generale Sisi vorrà chiedere un altro mandato al popolo egiziano, dovrà prima chiedere il permesso al ministro dell’Interno». Il riferimento è alla discussa manifestazione del 26 luglio scorso, invocata dal generale Abdel Fattah el-Sisi per chiedere agli egiziani di conferirgli un chiaro mandato nella «lotta al terrorismo». La battuta citata è circolata dopo che il presidente ad interim Adly Mansour ha firmato la nuova legge che regola le manifestazioni, proposta dal ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim e già soprannominata «legge anti-proteste».
Secondo la normativa introdotta nei giorni scorsi, infatti, qualsiasi manifestazione (sono sufficienti dieci persone) va notificata di persona, per mano degli organizzatori, alla stazione di polizia responsabile della zona nella quale si svolgerà la protesta. La notifica deve pervenire almeno tre giorni lavorativi prima della manifestazione (solo ventiquattro ore nel caso di raduni elettorali). Nella notifica vanno indicati: luogo della protesta; percorso dei cortei; ora d’inizio e fine della manifestazione; oggetto, scopo, domande e slogan della protesta; i nomi degli individui e dei movimenti organizzatori, con loro qualifica, luogo di residenza e modalità per contattarli. Il ministero dell’Interno ha la facoltà di vietare la manifestazione, o modificarne il percorso, per ragioni di sicurezza. Inoltre, è sufficiente che uno solo dei manifestanti compia qualche atto «che si discosti dall’espressione pacifica della propria opinione», affinché la polizia sia autorizzata a sgomberare la protesta con mezzi via via più violenti. Infine, è proibito manifestare nei luoghi di culto (niente più cortei del venerdì dai cortili delle moschee), così come nelle vicinanze di edifici governativi, militari e delle forze di sicurezza (quanto vicino lo stabilisce sempre il ministero dell’Interno con il governatore locale). Proibito, fra l’altro, coprirsi il volto, interrompere il traffico e portare fuochi d’artificio alle manifestazioni. Le pene per chi viola tali regole vanno da uno a sette anni di carcere, a seconda della gravità del reato, e da 10.000 a 300.000 sterline egiziane (dai 1.070 ai 32 mila euro).
Soffocare in questo modo il diritto di protesta è forse stata la mossa politica più sconsiderata che si potesse pensare, in un Paese in cui, dopo tre anni di rivolte, elezioni, rovesciamenti di governo e battaglie fra istituzioni, l’unico vero spazio di partecipazione politica che ha qualche efficacia è ancora la piazza. Infatti, mentre continuano a bassa intensità le proteste dell’Alleanza anti-golpe (ex pro-Morsi), la nuova legge anti-proteste ha riportato in piazza attivisti per i diritti umani e manifestanti “laici”. Martedì 26 novembre è stata indetta una manifestazione, senza la notifica prevista dalla legge, davanti alla sede della Shura (Camera alta del Parlamento), dove era in corso la discussione sulla nuova Costituzione. Dopo solo una decina di minuti, la polizia è intervenuta duramente, arrestando una quarantina di persone. Le donne sono state picchiate, molestate sessualmente e, dopo qualche ora, “rilasciate” nel deserto alla periferia del Cairo. Gli uomini sono stati invece trattenuti e torturati. Attualmente sono ancora detenuti e hanno iniziato uno sciopero della fame. Pochi giorni dopo è stato arrestato il noto attivista Alaa Abdel Fattah, accusato di aver incitato alla protesta. Il fondatore del Movimento 6 Aprile Ahmed Maher, colpito anche lui da un mandato di arresto, si è consegnato spontaneamente alla polizia.
La scorsa settimana, il pugno duro del ministero dell’Interno ha colpito anche nelle università, dove da settimane si tengono regolari manifestazioni. La polizia è stata autorizzata a intervenire nei campus. Giovedì 26 novembre, uno studente d’ingegneria, Mohamed Reda, è stato ucciso da una pallottola. Il ministro dell’Istruzione superiore, Hossam Eissa, ha negato l’uso di munizioni metalliche da parte della polizia nei campus universitari, ma intanto quello studente è morto e ora gli atenei egiziani sono in subbuglio. E ad agitare ancor più le coscienze è giunta la condanna ad undici anni di carcere per un gruppo di ragazze di Alessandria, alcune delle quali minorenni, colpevoli di aver partecipato a una manifestazione pro-Morsi.
La polizia e il ministero dell’Interno, dunque, sembrano aver riacquistato piena forza, ben intenzionati a recuperare la potenza di un tempo, non si sa se con il consenso dei militari oppure no. La battuta citata all’inizio dell’articolo sembra favorire uno scenario nel quale il ministero dell’Interno agisce come forza autonoma, nel tentativo di ristabilire il suo spazio di potere e il regno della paura dell’era Mubarak, anche a costo di mandare all’aria la roadmap sostenuta dai militari.
Anche di fronte a questa situazione, è da escludere per ora una rinnovata alleanza fra islamisti e oppositori laici, dopo tutto quel che è successo nell’ultimo anno. La società egiziana non ha perdonato gli islamisti, né sembra intenzionata a farlo. Tuttavia, quel che è accaduto nell’ultima settimana ha scavato una piccola crepa nel muro compatto di sostegno alla polizia. Dopotutto, soltanto tre anni fa, gli egiziani sono scesi in piazza in primo luogo contro lo Stato di polizia e i suoi abusi, e solo in un secondo tempo si sono spinti a chiedere le dimissioni di Hosni Mubarak. Per ora l’Egitto aspetta di vedere se la roadmap proposta dal movimento Tamarrud, supportata sia dalle manifestazioni oceaniche del 30 giugno 2013 sia dai militari, sarà rispettata. Aspetta anche di capire quale Costituzione sarà sottoposta al suo voto. Dopodiché, nulla può considerarsi scontato in Egitto.