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Mina che mi ha aperto gli occhi

Carlo Giorgi
21 gennaio 2014
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Mina che mi ha aperto gli occhi
Un murale dedicato al giovane copto Mina Danial.

Se c’è un aspetto positivo della rivoluzione egiziana è che, per la prima volta nella storia, ha dato l’occasione ai giovani copti di far sentire liberamente  la propria voce. Consentendo ad una nuova generazione di musulmani e cristiani di trovarsi fianco a fianco, condividendo il sogno e la battaglia per uno Stato più moderno e giusto.

In questo senso il quotidiano egiziano Al Ahram ha pubblicato ultimamente una storia che merita di essere raccontata. Si tratta dell’amicizia di due giovani: Tarek el-Taybe, 25 anni, fondamentalista musulmano, e Mina Danial cristiano di 22 anni.

Tarek e Mina si incontrano per la prima volta il 28 gennaio 2011, il famoso «venerdì della rabbia» giorno delle prime manifestazioni oceaniche, dei primi scontri tra esercito e sostenitori del presidente Hosni Mubarak da una parte e gli oppositori del regime dall’altra. Piazza Tahrir, da grande svincolo stradale del Cairo, si è trasformata in un campo di battaglia: fumogeni e bandiere, gente che si aggrega e scappa da ogni parte, spari e cariche delle forze di sicurezza. Nella concitazione degli scontri, un proiettile colpisce Mina ad una gamba. «Sei ferito?», gli domanda Tarek trovandoselo di fianco casualmente e vedendolo in difficoltà. «Sì, ma è una cosa da poco…», gli risponde ridendo Mina. «Non è vero! – esclama Tarek – Devi farti controllare la ferita! » ed insiste, pur non conoscendolo, per portarlo subito in ospedale. Basta questo: i due diventano amici inseparabili, un’amicizia istintiva, di pancia, che nasce dalla solidarietà spontanea di Tarek e dal vedersi fianco a fianco, impegnati sulla stessa barricata. Quando Tarek e Mina si incontrano però, non possono minimamente sospettare di essere «irrimediabilmente» separati; letteralmente agli antipodi per visione del mondo, convinzioni religiose e storia personale.

Tarek da parte sua era conosciuto tra gli amici come «il salafita», uno che fino a quel momento aveva sempre semplicemente odiato i cristiani. «Ho iniziato a frequentare la scuola salafita all’età di 13 anni – racconta -. Secondo quel che ho sempre pensato, i cristiani erano eretici e diventare loro amico costituiva un grave peccato. I primi tempi della nostra amicizia non osavo manifestare queste mie convinzioni a Mina. Quando lui mi diceva che mi voleva bene gli avrei dovuto rispondere che lo odiavo… Erano idee fanatiche ben radicate in me, per toglierle di mezzo c’è voluto del tempo».

Mina invece nasce nella cittadina di Sanabo, governatorato di Assiut, Alto Egitto. È il più giovane di sette fratelli e, la sua, è l’unica famiglia cristiana in una via interamente musulmana. Fin da bambino rivela un carattere d’oro, sorride sempre, riesce a farsi voler bene da tutti. Nel villaggio purtroppo però la convivenza tra credenti di fedi diverse peggiora anno dopo anno. Cresce il fanatismo islamico e la piccola comunità cristiana viene attaccata senza motivo. Tanto che, quando Mina ha due anni, la famiglia Danial decide di partire, trovando rifugio ad Ezzbet El-Nakhl, sobborgo povero del Cairo. Una periferia urbana segnata dalla miseria, fatta di case malandate e strade dove i bambini giocano tra pozzanghere e immondizia. È proprio la povertà del Cairo e la conoscenza diretta dei diseredati, che fa crescere in Mina un forte desiderio di giustizia, spingendolo ad un impegno civile e politico sempre maggiore. Si iscrive alla facoltà di Economia. È affascinato dalla figura di Che Guevara, dal mito socialista della giustizia sociale. In lui si fa strada l’idea che in Egitto i poveri siano in fondo una «palla presa a calci nella partita tra islamisti e liberali»; e che l’unico modo per migliorare la loro condizione, sia che cristiani e musulmani non si combattano a vicenda ma rivendichino uniti i propri diritti. Aderisce al gruppo giovanile Giustizia a libertà. È l’ultimo giorno del 2010. La rivoluzione egiziana deve ancora scoppiare e una bomba esplode di fronte alla chiesa dei Due Santi, ad Alessandria, causando 25 morti. Mina prende un’automobile nella notte e corre ad Alessandria. Vede i corpi straziati, rimane profondamente colpito. Per una settimana si rifiuta di mangiare. È pronto per impegnarsi con tutte le sue forze nella rivoluzione, che scoppia solo pochi giorni dopo, quando incontra Tarek in piazza Tahrir.

L’amicizia di Tarek e Mina dura solo pochi mesi; mesi intensi di sit-in, proteste, manifestazioni e tante occasioni per parlare e stare insieme. Il 9 ottobre del 2011, Mina viene ucciso nella strage di Maspero, diventando un’icona della rivoluzione egiziana,tanto che  il suo volto si trasforma in un logo, in un simbolo utilizzato anche dai Fratelli Musulmani. Nella camera mortuaria di Mina, dopo ore di veglia, quando anche la fidanzata e i parenti se ne sono andati, l’ultimo ad andarsene è proprio Tarek. Lo devono trascinare via: «I Fratelli musulmani sono tutti ipocriti – si sfoga Tarek -: pubblicamente lo indicano come un martire ma lontano dai microfoni parlano di lui come di un eretico!».

Dal momento della morte di Mina, Tarek cambia, abbandona i salafiti e oggi si considera un musulmano moderato, fiero di avere molti amici cristiani. «Mina mi ha aperto a una nuova prospettiva, insegnandomi cosa sia l’umanità – confessa -, ha aperto i miei occhi e ho visto finalmente cosa sono i cristiani: persone buone, gentili, caritatevoli e non dei corrotti, come sostengono gli estremisti…». Come Mina, che era amato da tutti e la cui storia ha lasciato il segno in tante persone. «Come può un uomo commuovere tanti cuori se Dio stesso non lo ama?», si domanda Tarek.

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