Dal luglio scorso ad oggi le delegazioni israeliane e palestinesi incaricate di portare avanti i negoziati di pace tra le due parti, sotto la regia del segretario di Stato Usa John Kerry, si sono già incontrate più di una ventina di volte. In almeno dieci occasioni Kerry ha sentito il bisogno di recarsi di persona a Gerusalemme e a Ramallah per dialogare direttamente con i massimi responsabili politici dei due popoli: il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Mahmoud Abbas.
Quando, nell’estate scorsa, quest’ultima tornata negoziale fu praticamente imposta dal governo americano, le parti in causa si diedero nove mesi di tempo per condurre trattative serrate, e protette dal massimo riserbo, tese a partorire un accordo quadro per una pace stabile tra i due popoli che si contendono la terra di Israele e Palestina. Il periodo di «gestazione» scade ad aprile e da settimane è annunciata come imminente la pubblicazione di un’articolata proposta dell’amministrazione Obama.
John Kerry continua a tessere la sua tela e a cercare sponde, in attesa del momento opportuno per mettere le sue carte sul tavolo, davanti all’opinione pubblica mondiale. I rischi che anche questa iniziativa si risolva in un naufragio sono altissimi e tutti lo sanno sin dal principio. D’altronde la politica estera statunitense nello scacchiere mediorientale, nel primo scorcio di questo millennio, non ha mietuto grandi successi e in diverse circostanze è apparsa poco lucida. Argomento non da poco in mano a coloro che, da ogni parte, alimentano diffidenze e sfiducia. Perché mai assecondare qualcuno che è sì sospinto dall’ottimismo della volontà, ma forse non ha gli strumenti per interpretare al meglio le dinamiche profonde di questa difficile regione del mondo?
Fatto sta che sull’alba del 2014 incombe un cielo cupo attraversato da tuoni e fulmini, che infrangono la cortina del riserbo sulle trattative. Il 30 dicembre 2013 il capo dei negoziatori palestinesi, Saeb Erekat, strilla che «Israele ha fatto fallire i colloqui» e che è inutile aspettare nove mesi per diagnosticarlo. Oltretutto una decina di giorni prima gli stessi palestinesi hanno fatto filtrare il loro disagio perché ritengono Kerry troppo vicino alle posizioni israeliane e quindi inadatto al ruolo di arbitro. Non passano molti giorni e tocca agli israeliani cercare di azzoppare il segretario di Stato Usa: scende in campo addirittura il ministro della Difesa Moshe Yaalon che va giù piatto e dice: «Kerry non ha nulla da insegnarci sul conflitto coi palestinesi. L’unica cosa che può salvarci è che gli diano il Nobel per la pace. Così poi ci lascerà vivere». Parole sprezzanti che gli americani gli faranno rimangiare nel giro di poche ore, ma che segnalano il disagio e la frustrazione di ampi settori della politica e dell’opinione pubblica israeliana.
La sensazione è che questo gennaio sia un momento cruciale. A Gerusalemme nei primi giorni dell’anno il segretario di Stato Usa ha detto: «Puntiamo a un accordo quadro complessivo su cui lavorare nei prossimi mesi. Ora sappiamo tutti quali sono i problemi sul tavolo e i loro parametri. Nelle prossime settimane i due leader dovranno prendere decisioni dure».
E assai probabile che vi siano canali di comunicazione apertissimi quanto riservati, nonostante le pubbliche dichiarazioni di scontento da entrambe le parti. Eppure la sensazione è che gli ostacoli non siano diminuiti, ma semmai aumentino.
In nome della sua sicurezza, tanto più in un contesto arabo di grande turbolenza, Israele ha avanzato la richiesta – già vagheggiata nel maggio 2011 in un discorso davanti al Congresso americano dal premier Netanyahu – di mantenere il controllo militare sulla frontiera con la Giordania, se non addirittura di annettersi la Valle del Giordano, cedendo in cambio all’eventuale Stato di Palestina qualche porzione della Galilea popolata da israeliani arabi (soluzione demograficamente gradita perché, oltretutto, ridurrebbe il numero dei cittadini non ebrei in Israele che oggi sono circa un milione e 700 mila, su 8 milioni complessivi di abitanti).
L’ipotesi viene rigettata dai palestinesi ma anche dalla Giordania, che pure è in pace con Israele. Al più viene presa in considerazione la possibilità di far dispiegare un contingente internazionale di interposizione.
Gli altri nodi da sciogliere sono noti da tempo: lo status di Gerusalemme (che Israele concepisce come propria capitale e non vuole spartire con uno Stato palestinese); i confini; le vie di comunicazione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza; il diritto al ritorno dei profughi del 1948; l’accesso alle sorgenti d’acqua; gli insediamenti israeliani in Cisgiordania; il riconoscimento della peculiarità di Israele in quanto «Stato ebraico» da parte dei palestinesi.